Il 4 maggio scorso Rocco Siffredi ha compiuto sessant’anni. Sul suo profilo Instagram quel giorno è comparso un reel in cui l’attore ringrazia per le migliaia di auguri ricevuti (i commenti sotto al post non sono però solo di auguri… ci sono anche insulti rabbiosi e ammonimenti moralizzatori: il bello dei social media, che ognuno si sente intitolato a dire quello che vuole). Nel breve video, Rocco si riprende in modalità selfie all’interno di un vasto e verde giardino, il suo luogo del cuore, dove va a correre tutti i giorni. Ha una maglietta bianca, è sudato e ansimante (ma per ragioni diverse dai soliti motivi per cui normalmente lo vediamo sudato e ansimante), e la ripresa ravvicinata mette chiaramente in evidenza le striature di grigio tra i suoi capelli biondi un po’ arruffati e ormai anche non più foltissimi. Rocco esprime gratitudine per il sostegno che sempre riceve, rammenta i trent’anni di matrimonio con la sua Rosetta, promette nuove sorprese, dice che «non è finita qui». Guardando quell’immagine ho provato, come spesso mi accade con lui, una grande tenerezza.

Rocco è entrato nella mia vita che non avevo ancora diciotto anni. Nel paese in provincia di Novara da cui provengo non c’è molto da fare, d’estate. Così, un pomeriggio del 1992 un caro amico aveva portato a casa mia una misteriosa videocassetta che tanto lo aveva entusiasmato. Il film in questione era (ça va sans dire) un “pornazzo”, intitolato L’uccello del piacere (Riccardo Schicchi, 1989) con Baby Pozzi, sorella della più nota Moana, e una sfilza di attori e attrici che allora non mi dicevano niente, ma che col tempo avrei imparato a conoscere come alcuni dei nomi più importanti della golden age del porno italiano ed europeo (Roberto Malone, Eva Orlowsky e Christoph Clark, tanto per citarne alcuni). L’uccello del piacere racconta la storia di una povera Principessa (Pozzi) che ha perso il sorriso a causa di un terribile maleficio, e della disperata ricerca dell’unico antidoto in grado di sconfiggere la sua inestinguibile tristezza: il fantomatico uccello della felicità. Diversi personaggi si avvicendano in questa favola di ambientazione medievale (tra cui anche un prestante Robin Hood, interpretato da Clark), ma chi davvero riuscirà a spezzare l’incantesimo con il proprio magico volatile («il solo con il sigillo di garanzia», afferma la voce narrante) sarà un biondo e giovanissimo Principe di nome Rocco. Era la prima volta che vedevo un film pornografico per intero; la visione collettiva, come spesso accadeva in quegli anni pre-internet, aveva più il fascino pruriginoso della bravata goliardica che non quello (apparentemente più connaturato al genere) dell’eccitazione sessuale. Ricordo che ridevamo come matti – gli schiavi di colore che parlano come la Mami di Via col vento sono certamente il momento più imbarazzante del film – e che alcune scene particolarmente “forti” erano commentate con espressioni di conclamato stupore, a volte anche velato di un certo disgusto. Ricordo una scena in particolare che mi aveva dato il voltastomaco: La Nuova Ramba (Florence Farkas) che si diletta con il manico di un’ascia da tagliaboschi… quella scena però sembra scomparsa nelle versioni del film che si trovano online, chissà come mai. (Tra l’altro: del film esiste una versione soft, intitolata L’uccello della felicità, in cui Rocco fa ancora Tano di cognome nei titoli di testa).

È anzitutto il suo aspetto fisico a renderlo in un certo senso anomalo nel contesto delle luci rosse

L’esperienza di quel pomeriggio è stata per certi versi molto formativa per la mia evoluzione personale. Per prima cosa, è probabilmente proprio quello il momento in cui è iniziata la mia curiosità per il porno, che si sarebbe trasformata in interesse appassionato (accademico e non solo). E poi c’era Rocco Siffredi. È anzitutto il suo aspetto fisico a renderlo in un certo senso anomalo nel contesto delle luci rosse: il suo viso aggraziato ed espressivo e il suo corpo atletico e “curato” non rientrano certo nei canoni del pornoattore per come normalmente ce lo immaginiamo – scimmiesco, irsuto, coi baffi e con l’addome leggermente rilassato. (Ecco una classica semplificazione, una delle tante che affliggono la percezione sociale del porno: nella visione comune, è un po’ come se tutti i pornodivi d’antan fossero stati “stampati” sul modello di Ron Jeremy). Colpisce. Anche per il vigore con cui si presta alla performance sessuale, che (pure agli occhi di una persona com’ero io allora, non certo avvezza al genere pornografico) sembra più impetuosa rispetto alle prove un po’ “impostate” degli altri attori. Non potevo saperlo quel giorno del 1992, ma quel ragazzo biondo che mi era tanto rimasto impresso era già una star mondiale del porno, o lo stava per diventare. 

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© Jeremy Bembaron / Sygma / Getty Images

Gli anni successivi a quel film sono decisivi per l’evoluzione professionale di Siffredi. Nel 1990 l’attore inizia il suo produttivo sodalizio con il regista e performer nordamericano John Stagliano, che diventerà anche il suo distributore negli Stati Uniti. In quel contesto, entra in contatto con un modo fortemente innovativo di intendere il porno audiovisivo. Le scene sono girate con la videocamera tenuta in mano, c’è un’interazione costante tra regista-operatore e performer, sia maschi che femmine, che spesso vengono letteralmente presi dalla strada – in una sorta di pervertito e perverso cinéma-vérité del piacere. Anche il sesso filmato è differente, più muscolare e più “vero”, appunto, per quanto si possa discriminare tra livelli di “realtà” quando si parla di sesso esplicito (il sesso pornografico non è forse “reale” per definizione?). È la cosiddetta pornografia gonzo, di cui Stagliano è certamente il padre indiscusso e della quale lo stesso Rocco diventerà uno dei massimi esponenti a livello internazionale. Nel 1993, lo stallone italiano fonda la sua casa di produzione, la Rocco Siffredi Production, che gli permette di sviluppare un distintivo stile performativo e registico, caratterizzato da una spiccata propensione per l’eccesso e il parossismo, sia nelle pratiche messe in scena che nelle fantasie rappresentate – la scena di Sandy l’insaziabile (1995) in cui il Nostro sodomizza Sidonie Lamour mettendole la testa nel water e tirando lo sciacquone rimane ancora oggi una pietra miliare dell’estremo pornografico (scena ripresa, tra l’altro, in modo fortemente derogatorio dalla recente serie Netflix Supersex, “liberamente ispirata” alla vita dell’attore).

Da qui in poi è una scalata inarrestabile. Rocco gira centinaia di film facendo sesso con migliaia di donne, mentre fioccano decine di premi e riconoscimenti – dall’europeo Hot d’Or, agli americani AVN, XBIZ e XRCO Awards – che lo consacrano a tutti gli effetti come una delle più importanti pornostar del mondo. Nella sua carriera sono innumerevoli i titoli indimenticabili, sarebbe impossibile elencarli tutti (o anche vederli tutti, se è per questo). Del Siffredi regista, se si escludono i titoli “storici” degli anni Novanta, forse la serie dai risvolti più interessanti (ancorché problematici da diversi punti di vista) è quella degli Animal Trainer, per la sfrontatezza impenitente con la quale vengono messe plasticamente in scena le contorte sfumature del sesso inteso come relazione di potere. Come performer, Rocco dà invece il meglio quando diretto proprio da Stagliano (dai primi Buttman fino alla tetralogia dei Fashionistas, e oltre): il padre del gonzo, infatti, non soltanto non si sforza di “contenere” l’estro erotico dell’attore italiano, ma riesce a volte anche a incorporare la sua “esotica” ironia all’interno delle scene, dimostrando (se ancora ce ne fosse bisogno) che il porno è in grado di processare al proprio interno emozioni anche molto diverse tra loro (e, soprattutto, che il porno migliore è quello che sa anche non prendersi troppo sul serio).

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© Stephane Cardinale / Corbis / Getty Images

Quella del gotha delle luci rosse non è però la sua unica scalata. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, infatti, Siffredi si insinua progressivamente sulla scena pubblica italiana: le prime sporadiche apparizioni televisive – memorabile in questo senso la puntata di Milano-Roma del 1999, con un’indiavolata Luciana Littizzetto che lo massacra verbalmente per tutta la durata del viaggio; la collaborazione con la nota rock band demenziale per Rocco e le storie tese nel 1997; il succès de scandale dei film di Catherine Breillat (Romance del 1999 e Pornocrazia del 2004); la pubblicità delle patatine nel 2006; nel 2013 il reality Ci pensa Rocco, nel quale il maestro del porno aiuta le coppie in crisi a ritrovare l’intesa emotiva e sessuale; il denudamento mistico del 2015, tra la spiaggia deserta dell’Isola dei famosi e i salotti dei talk show pomeridiani; i ripetuti (e molto pubblicizzati) ritiri dalle scene e i ritorni in grande stile; e via di questo passo, fino al recente red carpet della Berlinale. Possiamo dire che Rocco Siffredi sia diventato, col passare degli anni, una vera e propria icona della cultura popolare: Rocco, il simpatico guascone che “ha provato tutte le patatine”; Rocco, il divertente guru del sesso che svela i segreti dell’erotismo alle lettrici di «Cosmopolitan»; Rocco, il sessodipendente pentito che piange in televisione e si aggrappa all’amore della moglie e dei figli per diventare un uomo migliore.

Il Porco che sta dietro ogni Padre? È, tra le altre cose, anche questa commistione mai del tutto pacificata di familiarità e unheimliche che rende Rocco Siffredi così unico

Come si accordano questi diversi Rocco con il performer animalesco ed estremo, tutto “sudore e sputi”, tanto amato dai suoi fan pornografici, me compresa? È una questione intricata, che richiederebbe altro spazio e tempo a disposizione per essere dipanata. Una cosa, però, mi sento di dirla… più una suggestione che un pensiero compiuto. Quando ho visto il reel che ho citato all’inizio, per un inspiegabile e quasi controintuitivo gioco di associazioni visuali ho pensato a Massimo Girotti che corre, nudo e urlante, in un lunare paesaggio vulcanico alla fine di Teorema di Pier Paolo Pasolini. E subito dopo mi è ovviamente venuto in mente il bellissimo The Visitor di Bruce LaBruce (rivisitazione iconoclasta del film del 1968) e quel finale volutamente vitalistico nel quale il corpo possente ed erotico del Padre (Macklin Kowal) si staglia invece sullo sfondo di una rigogliosa cascata. Riflettendo su questi bizzarri passaggi mentali, ho capito che forse la forza simbolica di Rocco (soprattutto del Rocco di adesso, quello sessantenne) sta nella relazione complessa che la sua figura intrattiene con l’idea di famiglia (borghese), di cui l’attore si mostra (essendolo probabilmente davvero) a tutti gli effetti come un fervente sostenitore, ma di cui sembra anche incarnare (letteralmente) una specie di ritorno del rimosso sessuale. Il Porco che sta dietro ogni Padre? È, tra le altre cose, anche questa commistione mai del tutto pacificata di familiarità e unheimliche che rende Rocco Siffredi così unico e (per me come per milioni di altri fan) stupefacente.