Ci sono parole che solo a pronunciarle lasciano in bocca un buon sapore di cenere novecentesca. Provate a dire, che so, “cinematografico”, “inconscio”, “sociale”. E che ne pensate di “testo” con tutti i suoi derivati? Che meraviglia lessicale: una di quelle metafore spente che basta davvero poco, un granello di immaginazione, per riaccendere. L’originaria figura retorica del latino textus, tessuto, da cui deriva, sottolineava come ognuno degli elementi di questo oggetto di linguaggio fosse intrecciato agli altri da innumerevoli rimandi, e come l’insieme di questi legami fosse, appunto, ciò che costituiva il tratto distintivo di questo atto linguistico. Una parola che era già una definizione. Qualcuno scrisse persino che il testo poteva essere fonte di piacere. E l’idea della sua sovranità regnava dall’empireo accademico fino agli infimi gironi scatologici: nei bagni del mio liceo, proprio di fronte all’infame cesso alla turca, tra disegni di cazzi e nomi di ragazze buttati lì a tradimento, qualcuno aveva scritto con un pennnarello nero sulle piastrelle: TESTO UGUALE PRETESTO PER IL POST-TESTO, che nel tentativo di sminuire il dogma non faceva che ribadirlo.
Ma dov’è finito il testo?
Una volta estinto il discorso sugli elementi, scusate il termine desueto, formali; spesa qualche parola standard sul contenuto – talvolta in un benintenzionato spirito zdanoviano: sarà buono? sarà utile? –, il ragionamento sul testo così ridotto non poteva che trasformarsi in una postilla alla chiacchiera onnipresente sull’autore e dell’autore su se stesso, nutrita delle vite di scrittori e scrittrici, nel flusso di interviste, podcast, filmati, immagini – un materiale vastissimo che però di rado riguarda lo scrittore che scrive, molto più spesso lo scrittore che vive: l’uomo, o la donna. L’autore che incontriamo al bar e con cui prendiamo un caffè. “Cosa fai quando non scrivi?”, “Hai una seconda passione?”, “Sei sposato/a?”, “Ma bevi davvero così tanto?”.
Chi si ricorda, oggi, al di là della confutazione proustiana che sembrò a lungo definitiva, di Charles Augustin de Saint-Beuve? Sebbene già relegato in solaio, prima del Contro Sainte-Beuve (scritto da Marcel Proust nel 1909, pubblicato nel 1954) l’implacabile critico del «Constitutionnel» – un articolo ogni lunedì per anni e anni fino a comporre un corpus enciclopedico di esaltazioni e inappellabili condanne che ci appaiono ora, perlopiù, come il risultato di grossolani errori prospettici – restava comunque un incontournable, il modello stesso del critico ottocentesco onnisciente e infallibile, lodato e temuto da molti suoi illustri contemporanei (visse dal 1804 al 1869). È quasi doloroso leggere con quanta deferenza Charles Baudelaire, il genio delle Fleurs du mal, gli si rivolgesse; quanto si sforzasse di trovare qualcosa di lodevole nei suoi versi e nei suoi romanzi; e con quanta sufficienza il vecchio trombone lo ricambiasse tenendolo a distanza, evitando accuratamente di lasciarsi coinvolgere nel processo del 1857 – proprio quando Baudelaire avrebbe avuto bisogno del sostegno della sua autorità – se non per qualche sparso cenno in cui si degnò di lasciar cadere, come per caso, che quel Baudelaire era in fondo, a conoscerlo bene, un bravo ragazzo. E ancora più doloroso è constatare Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti