Saper guardare è una pratica fondamentale, sia come attitudine fisica che metaforica, ma molto spesso guardare, come ci spiega John Berger, non è un’azione neutra, implica la capacità di mettersi in gioco, di rallentare i propri movimenti, di ridurre la velocità dello sguardo che non ci permette di riscoprire il mondo che ci circonda. Il più delle volte siamo guidati dalla nostra immaginazione, le altre siamo manipolati da chi oggi si è attrezzato per controllare il nostro sguardo, che rispetto al passato ha acquistato un valore economico. Il guardare lento è un esercizio fondamentale per scoprire il mondo. Berger afferma che «Guardare è una scelta… Non guardiamo mai solo una cosa: guardiamo sempre alla relazione tra la cosa e noi stessi».

È quello che fa Cristiano Seganfreddo nel libro La banalità del brutto: guardare lo spazio tra le cose oltre le cose stesse. L’autore ci chiede di fare più attenzione alle cose brutte, a non darle per scontate, a guardarle per capire che è necessario educarsi al brutto perché la bruttezza che la città contemporanea, anche la più meravigliosa, nasconde nei suoi margini è pericolosa. Il fenomeno del brutto, che lo si chiami in maniera colta junkspace, nel tentativo di estetizzarlo e trasformarlo in linguaggio, o che sia un brutto basico e banale la cui forza consiste nell’apparente inoffensività, dobbiamo assolutamente imparare a riconoscerlo. Per trovare il brutto, ci dice Seganfreddo, dobbiamo cercare in città perché la vita non urbana non ha molto spazio per il brutto. Il brutto al quale siamo obbligati ad assistere inconsapevolmente ovunque sta avendo il sopravvento, e un giorno ci schiaccerà. Il libro lo racconta molto bene e nell’ultimo capitolo prova a mostrarcelo attraverso un’attenta catalogazione delle bruttezze quotidiane.

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