Su YouTube è presente un servizio televisivo della CNN datato 1993. Si tratta della prima volta che l’emittente televisiva americana parla di quella che allora era una nuova e, per i più, misteriosa tecnologia: il World Wide Web. Il servizio parte con una frase ad effetto: «Attraversa il mondo come un’autostrada: si chiama Internet». Stava riprendendo una fortunata metafora elaborata qualche anno prima dal politico che fino ad allora si era più speso per favorire l’ascesa del Web: Al Gore, che per primo aveva per primo definito Internet «autostrada dell’informazione». 

Gore aveva ben presente l’importanza di saper comunicare quella che all’epoca era ancora materia esoterica per nerd dei computer. Il potere delle metafore di condensare in immagini chiare e maneggiabili concetti complessi era necessario per rendere comprensibile qualcosa altrimenti descrivibile solo attraverso ostici tecnicismi. E di fatto lo è ancora oggi, considerando quante metafore (molte delle quali ormai cristallizzate, quindi invisibili) fanno parte del linguaggio con cui parliamo del Web.

Negli stessi anni in cui si parlava di autostrada dell’informazione, i gruppi di entusiasti tecno-utopisti, che cominciavano a formare le prime comunità online, preferivano un’immagine diversa, quella del Cyberspazio, termine inventato dallo scrittore di fantascienza William Gibson nel suo romanzo Neuromante. Il concetto di Cyberspazio suggeriva l’idea una frontiera tutta da esplorare, autogestita, priva di forme di controllo esterne: una sorta di mondo parallelo aperto e libero. Esisteva anche una Dichiarazione di indipendenza del Cyberspazio, redatta dall’attivista e libertario tecnologico John Perry Barlow, come se Internet fosse appunto un nuovo territorio che reclamava regole proprie, svincolate dalle forze che dominavano la vecchia realtà.

Oggi a quella concezione utopica della rete si può ripensare con nostalgia o disincanto. Vincente sembra essere stata piuttosto l’internet-autostrada di Al Gore (che, non per nulla, fu anche tra gli autori della revoca del bando sull’uso commerciale di Internet del 1991): una grande arteria commerciale, che lascia ben poca libertà a quelli che l’attraversano, se non di seguire la direzione scelta da chi controlla l’infrastruttura. 

Le “magnifiche sorti e progressive” sognate e teorizzate negli anni ’90 e primi 2000 non si sono realizzate e il Web che ci ritroviamo oggi non è né il Cyberspazio e neppure più l’autostrada dell’informazione; è un complesso industriale in mano a una manciata di grandi e potenti aziende, tutto votato a massimizzare i profitti e con, peraltro, esternalità pesantissime per la nostra società e perfino per i nostri cervelli

Nostalgia e disincanto, del resto, sono diventati sentimenti dominanti oggi quando si parla di Internet. Le “magnifiche sorti e progressive” sognate e teorizzate negli anni ’90 e primi 2000 non si sono realizzate e il Web che ci ritroviamo oggi non è né il Cyberspazio e neppure più l’autostrada dell’informazione; è un complesso industriale in mano a una manciata di grandi e potenti aziende, tutto votato a massimizzare i profitti e con, peraltro, esternalità pesantissime per la nostra società e perfino per i nostri cervelli. Invece che condivisione e democratizzazione del sapere abbiamo avuto un sistema pervasivo che spreme profitto dai nostri dati, minaccia la nostra privacy, inquina il dibattitto pubblico e compromette la nostra attenzione.

Questo “disagio del Web 2.0” è argomento ormai ampiamente discusso, ma negli ultimi mesi sono usciti due libri piuttosto utili per fare il punto sul tema. Si tratta di Dopo Internet. Le reti digitali tra capitale e comune di Tiziana Terranova, edito da Nero, e Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarlo di Valerio Bassan, pubblicato da Chiarelettere. 

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