Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Giulio Bollati, tra i massimi protagonisti della cultura italiana del secondo Novecento.

Scomparso nel 1996, è difficile sopravvalutare il contributo di Bollati alla storia editoriale del nostro Paese: personaggio chiave dell’Einaudi dal 1949 fino al commissariamento del 1983, Bollati si è poi creato un suo spazio personale e creativo prima alla Mondadori, dove diresse il ramo culturale de Il Saggiatore, per arrivare infine alla Boringhieri editore nel 1987, anno in cui il nome del nostro si affiancherà stabilmente a quello dell’amico fondatore Paolo.

Intellettuale raffinato e rigoroso, Bollati è autore di pochi ma splendidi saggi sulla storia culturale italiana fra Settecento e Ottocento, forse più citati che letti. Su tutti ricordiamo le raccolte di saggi L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (Einaudi, 1983) e L’invenzione dell’Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell’Unità, uscito nel 2014 e ripubblicato quest’anno per i tipi della Bollati Boringhieri.

L’interesse saggistico di Bollati si concentra soprattutto sugli anni del Risorgimento: un momento chiave della nostra storia, in cui si delinea per la prima volta la futura conformazione della nuova Italia unita. Un Paese economicamente e culturalmente arretrato si trova a dover fare i conti con la modernità europea: tra un illuminismo d’importazione, troppo debole per scalfire realmente gli equilibri sociali nostrani, e la reazione compatta dei letterati italiani contro le due Rivoluzioni – francese prima, industriale poi – si gioca per sempre il destino del nostro ceto intellettuale, rinunciatario e trasformista. Ripercorrendo le pagine dei suoi autori di riferimento (Leopardi, Verri, Manzoni, Cattaneo), Bollati è riuscito a tracciare un ritratto dei nostri problemi e tic culturali in un modo tutt’ora insuperato.

In attesa dell’imminente uscita per Einaudi del volume Lettere e scritti editoriali, a cura di Tommaso Munari, che aggiungerà un tassello importante per la conoscenza della sua attività editoriale, per ricordare Giulio Bollati abbiamo intervistato un suo amico e collaboratore: Alfonso Berardinelli. Tra i più importanti critici e saggisti italiani contemporanei, fondatore della rivista critica «Diario» e de «L’età del ferro», collaboratore di quotidiani («Il Foglio», «Avvenire», «Il Sole 24 Ore») e riviste («Il Venerdì», «Una città»), Berardinelli ha pubblicato il suo primo libro di saggi proprio con Il Saggiatore, al tempo della direzione di Bollati.

I.G.: Lei ha conosciuto e lavorato con Giulio Bollati. Che uomo era?

A.B.: Era un raffinatissimo intellettuale, con una coscienza di sé altrettanto complessa. Nel suo distacco principesco non era facile penetrare. Ma la prima qualità percepibile era il suo stile, nel quale si alternavano ambizione, orgoglio e timidezze.

I.G.: I Bollati erano una famiglia nobile, di origine piemontese. Il padre, come lo stesso Bollati ricorda in Memorie minime, era un importante tecnico per la Edison. Com’era Giulio? Aveva atteggiamenti altezzosi o snob?

A.B.: Era alla mano come lo sono i veri nobili, e non come quelli che se ne stanno impettiti, che sono dei cretini. La nobiltà è piena di imbecilli, purtroppo. Lo dice anche Leopardi, no? Quando andò a Roma per incontrare i suoi parenti, che erano dei nobili, che cosa disse? Che erano dei cretini. Anche lo stesso padre di Leopardi era un nobile, ma non era Giacomo… Non è un caso che molti degli scritti di Bollati abbiano origine da questo aspetto autobiografico: Leopardi, Manzoni, Verri, gli illuministi e i romantici italiani, che studiò per tutta la vita, erano tutti nobili. Una nobiltà che non è più quella di spada, ma di penna. E che s’impegna nella battaglia dell’illuminismo, purtroppo molto fiacco in Italia.

I.G.: Prima di affrontare il suo pensiero, parliamo di Bollati editore e della sua lunga carriera: gli inizi per Einaudi, il passaggio a Mondadori e l’approdo finale a Bollati Boringhieri. Qual è stato il suo contributo più importante in questo campo?

A.B.: Non posso rispondere in modo esauriente a questa domanda perché non ho conosciuto Bollati quando era uno dei maggiori strateghi dell’Einaudi. L’ho incontrato proprio nel momento in cui dall’Einaudi era uscito. Credo di poter dire, comunque, che l’Einaudi che non gli piaceva più era quella delle grandi opere collettive in più volumi. Una casa editrice affollata di aspiranti in competizione per dividersi la torta. Non credo che lui li sopportasse. Quando l’ho conosciuto, nel 1983, aveva l’aria di voler ricominciare altrove, e del tutto a modo suo. In effetti gli anni Ottanta segnavano una svolta radicale rispetto al passato, sia politicamente che culturalmente. Ormai sentiva il bisogno di un altro ambiente, più suo.

I.G.: Dunque ha conosciuto Bollati nel 1983, l’anno di pubblicazione del suo capolavoro L’italiano.

A.B.: Esatto. Usciva dall’Einaudi con quel saggio e col progetto di un lavoro editoriale che non dovesse misurarsi con il cattivo contesto einaudiano.

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Alberto Aros Rosa © Leonardo Cendamo / Getty Images

I.G.: Come è entrato in collaborazione con lui?

A.B.: In quel periodo, Bollati era passato dall’Einaudi a un ramo della Mondadori, ovvero Il Saggiatore. Era il ramo culturale più alto della Mondadori, creato negli anni Cinquanta, quando i direttori di collana erano Giacomo Debenedetti e Giulio Carlo Argan. Una collana con una tradizione che si stava perdendo. Andando a dirigere Il Saggiatore, mi chiamò e pubblicò il mio primo libro di saggi, Il critico senza mestiere. Aveva letto una mia stroncatura ad Alberto Asor Rosa, in particolare al primo libro della Letteratura italiana Einaudi, che poi andò avanti per altri venti volumi. L’avevo stroncata, divertendomi molto, fin dalla prima frase con cui si apriva l’introduzione di quella grande opera, e che suonava così: “La letteratura è un fenomeno complesso”. Scrissi dieci pagine per ridicolizzare questo incipit lapalissiano. Bollati naturalmente l’aveva letto. Mi telefonò e ci siamo visti per la prima volta a Roma. Quando il mio saggio uscì in volume, all’inizio degli anni Novanta, Asor Rosa telefonò a Bollati, protestando. Immagino che Bollati abbia riso di gusto… Se n’era andato dall’Einaudi anche per la presenza di tipi come Asor Rosa. 

I.G.: Era un uomo ironico?

A.B.: Molto, sì. Un conversatore brillante. Il suo lavoro editoriale era fondato sulla conversazione. Mi ricordo un episodio significativo. Negli anni Novanta pubblicò un mio secondo libro di saggi, in cui erano incluse tre stroncature, quella già citata di Asor Rosa, una di Umberto Eco e una di Pietro Citati. Mi chiamò al telefono per dirmi che mi voleva parlare, e decidemmo di vederci a Milano. Mi chiese se ero davvero sicuro di voler inserire le stroncature: «Li vuoi proprio mettere questi pezzi su Eco e Citati?». Non era per pavidità, anzi. Pensa la delicatezza, voleva semplicemente rendermi più autorevole. Non voleva che passassi per uno che scriveva solo stroncature. I rapporti con lui erano questi: si prendeva un treno per vedersi e decidere se mettere o no un paio di saggi in un mio volume. Esistono oggi editori che fanno cose del genere? C’è un altro episodio che può darti il senso dello stile di Bollati. Quando pubblicò Il critico senza mestiere mi fece una pubblicità piuttosto costosa, credo, in prima pagina su La Repubblica. In basso a destra c’era la copertina del libro e questa frase: «Il libro che ha segnato una svolta nella critica letteraria italiana». Quando la vidi mi dissi: ma che sta succedendo? È il mio primo libro di saggi! Ho chiamato Giulio e gli ho detto: «Non so se è vera questa cosa”. Lui mi ha risposto: “Sarà vera». Questo è un editore che scommette su un autore. «Sarà vera». E in effetti, poi, si è rivelata tale. 

I.G.: In che senso?

A.B.: Tutti gli strutturalismi che criticavo sono crollati; sono scomparsi i formalisti, quelli che erano fissati con l’idea che la letteratura fosse fatta di parole… Grazie, certo che è fatta di parole, ma mica solo di quelle! È fatta di esperienze, di storie personali, di cultura, di contesti. Al tempo qualcuno pensava che si dovesse ricercare la categoria di “letterarietà”. Una volta definita quella, la critica poteva finire. Si dimostrava che le funzioni linguistiche rispondevano alla regola secondo cui la letterarietà era una sostanza, non un fenomeno. Un errore platonico, capisci? Che cos’è un cavallo? Definiamo prima la “cavallinità”… Ma non si può giudicare a priori, bisogna vedere di volta in volta che cos’è la letteratura! Come si fa a mettere assieme Omero e Mallarmé? Adesso queste cose suonano ridicole, ma allora c’era davvero chi andava alla ricerca della “letterarietà” col lanternino. Baroni importantissimi, come Carlo Ossola e Cesare Segre, che non potevano sopportare di essere confutati dalle teorie di un ricercatore. Era anche un problema di gerarchie accademiche, naturalmente…

I.G.: Torniamo a Bollati. Nella prefazione a L’invenzione dell’Italia moderna scrive: “Se c’è un autore per il quale il rapporto fra critica e autobiografia è più scoperto, questo è Giulio Bollati”. Cosa intende dire?

A.B.: Ho sottolineato questo aspetto perché in lui la grande intelligenza storica e letteraria non escludeva ma coinvolgeva la coscienza di sé, l’autoanalisi. È una caratteristica e qualità che raramente si trova negli studiosi.

I.G.: Nella stessa prefazione scrive: “(…) per quanto riguarda i valori e i pericoli della modernità, Bollati resta diviso fra partecipazione e distacco critico, fra l’attenzione all’utile e l’attenzione allo stile, con il suo Verri e il suo Leopardi”.

A.B.: Verri e Leopardi erano le due facce dello stesso Bollati. Impegno sì, ma mai senza stile. Lo stile è forma, è cultura, è argine agli ideologismi ciechi. Bollati era un aristocratico: il suo impegno politico era culturale, editoriale, mai strettamente e volgarmente politico. Quando lesse, sulla rivista «Diario», che facevo con Piergiorgio Bellocchio, un mio intervento intitolato Chi ci libererà dalla politica?, una volta a pranzo si girò improvvisamente verso di me e mi disse: «Già! Chi ci libererà dalla politica?». Più volte il PCI aveva tentato di farlo candidare per la Camera o per il Senato, ma aveva sempre rifiutato di mettersi in politica. Voleva fare politica con l’editoria.

I.G.: I saggi più importanti di Bollati si concentrano su un periodo cruciale della storia del nostro Paese, il Risorgimento, che fu per lui, a differenza di quella francese, una rivoluzione mancata, “che lasciava intatti gli equilibri e immutata la società”. L’Italia arrivava all’appuntamento con la modernità in ritardo rispetto ai vicini europei, e il Risorgimento, in definitiva, tramandava alla nazione “una riserva di fondo nei confronti della civiltà moderna”. Secondo lei, a distanza di più di quarant’anni e in un’epoca di matura globalizzazione, la diagnosi di Bollati è ancora valida?

A.B.: Sì. Intellettualmente, per Bollati, la cosa che contava di più era il rapporto della cultura italiana con la modernità, nata in Europa a metà Settecento. Editorialmente si trattava perciò di ripercorrere la nostra storia nazionale dall’illuminismo fino agli anni che lui stesso aveva vissuto, cioè dal 1945 in poi. Tra gli anni Novanta e Duemila le cose sono di nuovo profondamente cambiate. E devo dire che forse Giulio, alla fine, cominciò a sentirsi un editore e un intellettuale di un’altra epoca. Quello che l’Italia aveva perduto nell’Ottocento e nel Novecento non era più recuperabile.

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Pietro Citati © Leonardo Cendamo / Getty Images

I.G.: In un passaggio chiave de L’italiano, Bollati suggerisce che sia stata proprio la dolorosa consapevolezza di un ritardo strutturale del Paese a innescare una forma patologica della coscienza italiana, un vero e proprio “carattere” nazionale. Scrive: “nella simultaneità di primato e decadenza, di inferiorità oggettiva iper-compensata da un senso invitto di superiorità, si istituisce uno degli schemi più caratteristici e stabili dell’intera storia italiana”. Quali forme di questo schema si possono rintracciare nell’Italia di oggi?

A.B.: Il guaio era stato resistere alla modernità europea in nome di una nostra superiorità pre-moderna. Avevamo avuto il romanticismo, ma deboli sono stati da noi sia l’illuminismo che il romanticismo. Oggi la situazione mi sembra rovesciata. La nostra cultura è ridotta in briciole e manca del tutto la capacità critica. Da troppo tempo siamo diventati le scimmie di mode culturali nate in America e in Francia, che tra l’altro imitiamo male, senza nemmeno capirle davvero.

I.G.: Nel saggio La prosa morale e civile, Bollati mostra come l’illuminismo del gruppo milanese del “Caffè”, col suo progetto di creazione di una nuova cultura scientifica, sia naufragato per debolezze interne e per la reazione compatta di molti intellettuali (Parini, Alfieri, Foscolo, Mazzini, Manzoni…). I letterati italiani guardano con sospetto al commercio e all’industria, alle scienze esatte; si arroccano nell’eloquenza, nel bello stile, in un’arcadia contadina. È, nelle parole di Bollati, un divorzio “con cui lo sviluppo del Paese dovrà fare i conti e la cui forza d’inerzia idealistica sarà uno dei fattori ritardanti o devianti più tenaci”. Quali sono state le conseguenze più gravi di questo idealismo?

A.B.: All’Italia sono mancati, o hanno avuto rilievo insufficiente, sia il razionalismo francese che l’empirismo inglese. In questo senso, l’influenza della cultura idealistica tedesca in Italia è stata dannosa. Prima l’idealismo di Hegel, poi, più recentemente, nel Novecento, l’ontologia di Heidegger, con i loro gerghi, ci hanno fornito l’alibi disastroso di sentirci al culmine dell’astrazione filosofica. D’altra parte, il “realismo” italiano è fatto solo di miserabili furbizie. Questo ha danneggiato anche la prosa di pensiero italiana, con i cattivi o pessimi imitatori di Benjamin e Heidegger – basta vedere come scrivono Massimo Cacciari e Giorgio Agamben: due falsi metafisici, né razionali, né empirici.

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Massimo Cacciari © Leonardo Cendamo / Getty Images

I.G.: Nonostante la predilezione di Bollati per gli illuministi del «Caffè», oggi che abbiamo presente i rischi ecologici, tecnologici e sociali della modernità industriale, è forse più facile schierarsi con gli intellettuali loro antagonisti: in primis con Leopardi, e con chi, anche nel Novecento, mostrava i pericoli di una modernizzazione senza progresso culturale, come Pasolini.

A.B.: Ma Leopardi e Pasolini non sono stati nemici retorico-idealistici della modernità! Hanno usato invece la loro esperienza personale e la loro razionalità, l’analisi sociale e morale, per criticare radicalmente una modernizzazione italiana, priva di coscienza critica e imitata male.

I.G.: A proposito di Leopardi: nel bellissimo saggio dedicato alla Crestomanzia italiana, Bollati ripercorre il progetto leopardiano di fondare una nuova prosa italiana con le sue Operette morali, e riporta questo stralcio di una lettera a Pietro Giordani, che vale la pena di citare per intero: «Chiunque vorrà far bene all’Italia, prima di tutto dovrà mostrarle una lingua filosofica, senza la quale io credo ch’ella non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione». Senza dubbio oggi esiste una letteratura moderna in Italia, ma siamo per questo diventati più nazione?

A.B.: Quello che dice Leopardi è stato vero allora e lo è anche oggi. Senza una prosa critica e di pensiero adeguata, senza uno stile filosofico e una lingua filosofica che non siano d’accatto, non c’è letteratura realmente moderna. No: una letteratura davvero moderna oggi, in Italia, non esiste. Perché non c’è letteratura se non c’è critica letteraria; e da noi la critica è sparita. Nessuno la vuole e nessuno la esercita.

I.G.: Un altro tema de L’italiano è il trasformismo. «Riflesso di difesa per un Paese costitutivamente debole», il trasformismo avrebbe causato in Italia un divorzio fra cultura, sempre più idealistica, e politica, malata di pragmatismo e indifferente alle grandi questioni di principio. Crede che sia una diagnosi giusta, oggi che anche la cultura sembra faticare a imporre nuove idee e nuove descrizioni del mondo?

A.B.: Siamo fisiologicamente “trasformisti” per mancanza di una vera auto-coscienza storica nazionale. E infatti gli autori italiani di oggi sognano di essere anglofoni…

I.G.: Eppure in Italia, fino agli anni Ottanta, c’erano forze politiche e culturali che facevano della coscienza storica un loro punto di forza ideologica. Come si è persa questa coscienza? Non siamo, in fondo, un paese di storicisti?

A.B.: Certo, c’è stata questa coscienza. Ma è vissuta di mistificazioni. E il discorso di Bollati vale non tanto per l’oggi, ma per quello che è avvenuto fino alla sua generazione. Oggi, con la scolarizzazione di massa e con l’aumento vertiginoso delle pubblicazioni, è cambiato l’intero sistema culturale. Non ci si può mettere a discutere allo stesso modo di Bollati e di Baricco. Non sta bene, non è possibile. Come per tutte le cose migliori del passato, Bollati è diventato un corpo estraneo. Oggi Corrado Augias è diventato il più autorevole intellettuale italiano. Ti rendi conto? Augias è un intellettuale televisivo, sì: ma non è molto di più. La scena culturale è affollata come mai. Prima i poeti erano dieci ogni generazione; adesso superano i cento, centocinquanta. I romanzieri sono trecento… Se la scena culturale è così affollata, non c’è posto per Bollati. Ma ormai, forse, non c’è più posto nemmeno per Calvino, per Pasolini. Sono cose d’altri tempi. La distanza che c’è fra la cultura di oggi e quella degli anni Settanta, fino agli Ottanta forse, è incolmabile. Per questo dico che manca il senso del passato, anche di quello recente. Si commemora Pasolini a partire dai suoi film, soprattutto. Ma è diventata una forma di ipocrisia: gli si rende omaggio senza credere a una parola di quello che ha detto. Questo è il guaio. Io, ormai, da più di dieci anni scrivo articoli soltanto sulla saggistica, prevalentemente internazionale. Il critico letterario, il saggista, non può essere ignorante. È un genere letterario in cui non si può inventare da zero, né esprimere soltanto le proprie emozioni, le proprie visioni diurne e notturne, come avviene per la poesia o la narrativa. Il saggista deve lavorare con i concetti, con i fatti, con le interpretazioni, con il passato.

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Umberto Eco © Leonardo Cendamo / Getty Images

I.G.: Abbiamo un problema con la saggistica, in Italia?

A.B.: Di più: c’è un odio degli accademici per il saggismo. Perché non sopportano che uno studioso abbia un’autobiografia, che abbia un io. Pensaci: spesso non si capisce perché gli accademici studiano quello che studiano. Prendi dieci professori universitari e chiedi loro di che cosa si occupano. Poi chiedi loro il perché. Non lo sanno! “Mancava una monografia su Tizio”… “Bisognerebbe coprire questa lacuna”… Oppure, più prosaicamente, il barone di turno li ha indirizzati allo studio di certe cose che facevano comodo a lui: gli serviva avere un allievo che studiasse argomenti che lui non aveva studiato. In questo senso dico che il rapporto fra critico e autobiografia è importantissimo. Giacomo Debenedetti ha scritto un saggio intitolato appunto Critica ed autobiografia e Bollati è uno dei migliori esempi di questo connubio. Perché è importante? Intanto perché la saggistica è un genere letterario; e anche la critica è un genere letterario. Un’altra cosa è lo studio letterario. Uno si mette a leggere tutte le opere di un autore, ma, in fondo, non gliene frega niente. Il saggista legge quello che gli serve, quello che ha a che fare con i suoi problemi personali e storici. Non studia perché, semplicemente, deve farlo per lavoro: è un’altra cosa.

I.G.: Tornando al trasformismo: nell’articolo Peripezie italiane di politica e cultura, pubblicato in “Nuovi Argomenti” nel 1983, Bollati rintraccia il tipico trasformismo nostrano anche fra i marxisti italiani. “Una un po’ affrettata e ottimistica interpretazione di Gramsci ci diede la certezza di poter essere comunisti restando eventualmente liberali… L’italo-marxismo prometteva soluzioni teoriche originali e una palingenesi senza apocalisse”. Oggi la sinistra pare aver rinunciato ai sogni di palingenesi, accontentandosi di una mera gestione dell’esistente.

A.B.: Il marxismo italiano degli anni Sessanta e Settanta oscillava fra la pigrizia dogmatica del Partito Comunista e l’estremismo delirante degli “operaisti”, culturalmente nichilisti. La loro classe operaia era un mito, un sogno a occhi aperti.

I.G.: Trasformismo; cultura diffidente verso la modernità; senso di superiorità morale a mascherare un ritardo materiale; tendenza a una conciliazione tra progresso e continuità storica: questi i caratteri italiani rintracciati da Bollati. E per lei? Qual è il carattere italiano per eccellenza?

A.B.: Non lo si può certo definire in due battute… Prima di tutto bisogna dire, in modo sintetico ed elementare, che, nonostante le oppressioni straniere, il carattere italiano non è mai diventato nazionale ma è rimasto regionale, provinciale, comunale. L’Italia unita non è riuscita a risolvere il problema dell’unità vera degli italiani. Il meglio dell’Italia dov’è? Ci sono quelli che sanno lavorare bene, c’è un’eredità dell’artigianato. Dal grande Rinascimento sembra che sia stata ereditata, in molti casi, la capacità di lavorare bene. Questo avviene in Emilia-Romagna, in Veneto, in Lombardia, in molte regioni del Nord. Direi che bisogna andare a nord di Roma per cominciare a trovare qualcosa di buono.

I.G.: E al Sud?

A.B.: Purtroppo non riesco a trovare le qualità buone del Sud. Soltanto una simpatia e una generosità, ma più a parole che nei fatti.

I.G.: Secondo lei quale messaggio lascia la figura di Bollati all’Italia del 2024?

A.B.: Ci dà una cosa che oggi manca totalmente, ovvero il senso del passato e la coscienza storica, che non c’è più. O non agisce più. Ma queste cose, ormai, sono irrimediabili… È avvenuto un crollo culturale. Gli intellettuali sono praticamente invisibili. Ciò che è culturalmente visibile è solo cultura di massa. I supplementi culturali, ma chi li legge più? Io stesso scrivo per cento persone. Non so davvero chi legga i miei articoli. Qua e là rimangono degli individui isolati, ma non c’è più un vero pubblico. Soprattutto se non sei un accademico ma, anzi, parli male dei professori.

I.G.: Nonostante l’originalità e la profondità delle sue analisi, Bollati rimane poco presente nel dibattito contemporaneo. Si può parlare di una rimozione, secondo lei? E quali potrebbero essere le sue ragioni?

A.B.: Sì. Forse gli accademici lo hanno considerato un pericoloso intruso, perché lo volevano solo editore dei loro libri.