Dopo i contributi di Walter Siti, Francesco Pacifico, Filippo D’Angelo, Marco Rossari, Silvia Pareschi, Luca Ricci, Ilaria Gaspari ed Ernesto Aloia, continua la serie di pezzi sull’arte della scrittura pubblicati grazie alla collaborazione di Snaporaz con la scuola Belleville.

Fare tanto con poco, anzi pochissimo (anzi, il minimo)

1.

Mentre scrivi sei solo, ma sulla pagina siete sempre in due – tu e il tuo lettore. Chi lavora di più? Chi si sbatte? La proporzione varia da paragrafo a paragrafo, perfino da una frase all’altra. Il punto è come e se questa fatica viene distribuita. Vediamo un esempio di come far lavorare chi legge. Da Una specie di solitudine di John Cheever:

E così domani vado a Boston a seppellire mio fratello.

La situazione narrativa è perfino elementare: c’è un personaggio che il giorno dopo deve cambiare città per presentarsi al funerale del fratello. Potremmo riscriverla da qualsiasi verso (ero distrutto, l’indomani col primo volo sarei dovuto partire…), da una prospettiva a piacere (John non andava a Boston… da quanto? pensò. E adesso…). Cheever sceglie una specie di grado zero. Rileggiamo la frase: non c’è un termine del lessico sentimentale, nemmeno uno. E non importa che si tratti di un diario, la frase è potente: ci senti subito la rassegnazione, o anche la stanchezza (E così), ci senti una certa ansia affidata a quel domani, e poi un dolore sordo, la bianca apnea del lutto. Il nome della città rende la situazione immediatamente, tragicamente reale. L’assenza di vocabolario emozionale rafforza quel verbo, seppellire, ne mette in risalto il sapore definitivo. Tutta la frase è un palcoscenico allestito per seppellire. Ma come riesce Cheever a infondermi questo senso di apnea luttuosa senza nominare nessuno dei termini-chiave che uno scrittore mediocre si affretterebbe a usare? La risposta è: facendo lavorare me. Sono io che colgo la rassegnazione e la stanchezza dentro il così, e sono sempre io a recepire la frase come una discesa senza ossigeno. Cheever qui opera il minimo indispensabile, si fida di me che leggo, lascia a me quasi tutto il lavoro. Il rigo si distende placido, eppure senti una sottrazione – come se la frase cancellasse qualcos’altro, qualcosa che Cheever non si è nemmeno dato la briga di far apparire.

Si chiama gioco di prestigio, e naturalmente non si può fare sempre così. Una buona scrittura è senz’altro il risultato di un’accorta valutazione delle forze in campo: qui faccio lavorare di più il lettore, qui devo lavorare più io. È un cruccio letterario antico. Oggi non siamo messi troppo bene. Proliferano scrittori autarchici che sulla pagina ti sbattono in un angolo, creano narratori dittatoriali che devono dirti tutto loro, non ti lasciano mai il giusto spazio di manovra. Per fare cosa? Be’, schierarti, per esempio. Per decidere da te come giudicare i fatti che vedi svolgersi sulla pagina. Sono scrittori che vogliono intestarsi la totalità del lavoro. Nel migliore dei casi una scrittura autarchica produce didascalia a fiotti. Nel peggiore, è una forma di censura. Il che ci porta al punto due.

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