Hai un brutto carattere, che brutto carattere, con quel carattere lì erano tutte locuzioni entrate così tanto nella fàtica relazionale da non essere più recepite per quello che probabilmente avrebbero voluto essere o meglio ancora produrre: consigli, avvertimenti, correzioni (specie per il tramite di figure variamente affettive). Una volta anche il dottor S deve avermi messa in guardia: il brutto carattere, deve aver detto così, se lo possono permettere gli uomini di potere e le belle ragazze. Aggiungendo refertualmente: e lei sta diventando troppo grande per i capricci. I capricci, insieme al brutto carattere, erano un’altra delle parole alert: ma nella mia percezione corrispondevano a legittima richiesta, bisogno, conquista. L’ostinazione, denigratoriamente tigna, mi è stata necessaria in tanti frangenti, ma capisco che vista dall’esterno possa stingere nella molestia. Ma cos’è, invece, un brutto carattere, come si distingue da una fatale e talvolta minimale strategia di sopravvivenza? Ci sono degli esempi che posso proporvi, in vari campi, signori della giuria di lettori, o al dottor S, a ricordarmene la prossima volta. Il primo è T. T mi ha sempre detto che a differenza di tutti gli altri lui, il mio brutto carattere, lo tollerava. Lo tollerava al punto da avermi scelta come sua più stretta collaboratrice, e stringi oggi stringi domani finimmo avvinghiati, cioè a letto, come metonimia però perché un letto vero e proprio non fu mai il nostro pattern. Non ti preoccupare, mi rassicurava, se poi le cose non vanno non ci saranno ritorsioni, il tuo lavoro qui in azienda non ne risentirà. Io non ne ero molto convinta, e avrei preferito evitare quei ribaltamenti di set per cui la scrivania su cui avevamo fino a un minuto prima regolato conti, trascritto dati e sistemato bilanci diventava il piano, svuotato di carte dai suoi movimenti repentinamente predatori (lingua tra le arcate, dita tra le grandi labbra, cazzo sulle natiche divaricate dalla trasmigrata lingua), su cui chinarmi per essere schiaffeggiata a mano aperta. È quello che vuoi, no? In realtà non sempre, e non lì, comunque. Ma lui sembrava eccitato soprattutto dalla prospettiva che potesse entrare qualcuno dei colleghi, o delle pulizie, proprio mentre ero riversa sul ripiano, fu scrivania, con le mutandine periclitanti. Estinta l’esuberanza erotico-punitiva, tornava al lavoro appena un po’ paonazzo. Io me ne andavo in bagno, qualche volta a casa. Che brutto carattere, potresti anche prenderla con più leggerezza, ci siamo divertiti, qual è il problema, mi rimproverava. Una volta eravamo in trasferta, aveva prenotato due stanze perché in ragione del mio brutto carattere non avrei sopportato il fumo delle sue sigarette, sigari o quel che erano, né avrei voluto dormire con lui nello stesso letto perché non eravamo due regolari fiancés. Arrivati in hotel mi aspettavo che ci saremmo rinfrescati ciascuno nel proprio box doccia per poi recarci alla riunione coi soci della sede locale, ma quando bussai alla sua porta lo trovai completamente svestito. Mi afferrò per un braccio senza dire niente e mi girò verso il letto, ma mi rifiutai di assecondare la spinta e anzi mi irrigidii contro la mano in guisa di calco. Avevi detto che eravamo qui per lavorare. Non potevi non aver capito che non c’era nessuna riunione, nessuna sede locale. No, non lo avevo capito. Me ne tornai in camera col corruccio del caso: che carattere di merda, mi scrisse pochi minuti dopo su WhatsApp colui che mi aveva assunta per pietà, perché nessun altro avrebbe tollerato le mie bizze, i miei cambi d’umore. Qui quando si era prodotta la metabolé? Effettivamente in treno avevo trovato stuzzicante che seduto sul sedile di fronte mi stringesse la caviglia tra le sue, si chinasse a prendere oggetti caduti giusto per lambirmi il polpaccio, si spostasse accanto a me per sfiorarmi come per accidente il gomito, poi la spalla, infine il capezzolo che faceva capoccella dalla camicetta lasciata aperta più del solito a quel preciso scopo. Era il gioco della seduzione, del qui non si può, sembrava quel racconto di Carrère così pruriginoso, perciò così eccitante. Non è eccitante che un uomo apra la porta della sua camera con l’appendice girelloni alle quattro del pomeriggio, dopo la messa in scena dell’impegno di lavoro. Ma non ce l’aveva una casa, mister T, si starà domandando la giuria dei lettori. Ce l’aveva, ovviamente, ma non poteva certo portarci una come me. Una con cui lavorava, nota oltretutto per il suo brutto carattere. Nota a chi? Alle persone che vivevano con lui: una compagna e una figlia di ventisei anni, cui avevo dato delle ripetizioni di matematica ai tempi in cui non lavoravo ancora per lui, ma un’amica mi aveva detto che il suo capo cercava qualcuno che aiutasse la rampolla a non farsi seccare per la terza volta in seconda ragioneria. Quest’amica poi era scomparsa e in uno dei suoi non rari effluvi confidenziali lui mi aveva spifferato che erano andati a letto, chissà se pure in quel caso per metonimia, poche volte, comunque, una o due. Un corpo meraviglioso, ma che gran testa di cazzo, nella sintesi di risulta, certamente obiettiva. Un’altra volta che il mio brutto carattere non ha tardato a manifestarsi era in occasione di un concorso per l’azienda in cui lavoravo prima che la munificenza del nuovo capo me ne rilevasse, nonostante il mio brutto eccetera. In quell’azienda c’era un altro capo che più volte mi aveva invitata a cena: alla fine mi ero risolta ad accettare perché ho sempre pensato ai soldi come a un bene da spargere, e se io non li ho è bene che se ne incarichino altri. Oltretutto a me non piace il cibo, gli odori, il liquame sotto le pietanze, sarà che lo chiamano letto di (segue ortaggio). E poi una cena è comunque un investimento per una donna, che necessita della piega dal parrucchiere e di una sistemata al viso con prodotti innumeri quando non è più, come certificava il dottor S, ragazza. Dunque, giusto che il capo se ne facesse carico. Non aveva prezzo sopportare che parlasse di sé per tutta la durata del trasbordo di pietanze dalla cucina al tavolo prescelto, chissà perché defilato (due orate con letto di: ortaggio che non rammento, vino per lui, dolce per me), ma ne avrebbe certo avuto uno molto alto ove avessi deciso di assecondare la sua improvvida richiesta di posargli una mano sul vello ad apprezzarne l’extrasistole (motivazione ufficiale) e conseguentemente salire da lui per il bicchiere della staffa, unica profferta cui dopo un litro e mezzo di acqua senza gas mi costrinsi a cedere al solo fine dello svuotamento uretrale. L’esito del concorso, nonostante il naufragio delle sue marpionerie, fu ottimo, mi piazzai ai primi posti, potevo scegliere la sede e scelsi la più lontana tra quelle disponibili. Si affrettò a informarmi di avermi “appoggiata” lui, sapendola più comoda per me (in realtà era la più distante da casa e non ho la patente, anzi sì, ma la uso come cimelio vintage – guarda qua com’ero grassa). Non mi risulta, gli dissi piccata, sono stata io a scegliere, in virtù del punteggio sufficientemente alto. Quest’arroganza non ti porterà lontano, hai proprio… un brutto carattere, chiudemmo all’unisono. Anche il dottor S pensava che avrei dovuto, viceversa, ringraziarlo, rispondendo con indulgenza alla sua ostentazione di un potere che non aveva avuto alcun bisogno di esercitare, nel mio caso. Assecondare, diceva con gli occhi semichiusi dalla sua postazione in penombra, assecondare: non sia sempre così figée.

Ecco, quindi, una prima definizione possibile di brutto carattere: rimanere incastrati in una specie di personaggio che sono stati gli altri, dicendola col pirandellismo degli studenti approssimativi, ad appiopparti.  Ma perché a te, e proprio a te? Il mio professore di Economia diceva, ai tempi, che ero io ad essere spigolosa, non il mondo a vedermi così. O meglio: se il mondo la vede così, Giada, è in effetti anche così, e bisogna che ci faccia i conti. I conti, appunto, avremmo dovuto parlare di quelli, ma invece nel suo studio mi chiamava per nome, mi dava del tu senza il preavviso funzionale e accostava la sedia alla mia, anziché rimanere al suo letterale posto. Mi alzai di scatto, chiusi la porta e addio Dottorato. Nel tempo avrei visto tutti i colleghi, bravi, meno bravi, mediocri, negati per lo studio, pippe, nel gergo studentesco tutt’ora in auge, accomodarsi trionfalmente su scranni da lui telecomandati, vincere immeriti concorsi, diventare docenti di vario ordine e grado. Ero l’unica a non aver beneficiato della sua longa e anche qui ahimè letterale manus. Avevo, stavolta invece in metafora, fatto male i miei conti, mi fece sapere da una conoscenza comune. E comunque era colpa del mio carattere. Che contava, com’è noto, più dei titoli e financo dell’aspetto. Pensavo di poter avere vita facile perché ero una bella ragazza? Bella ragazza doveva riconvertirsi in disponibilità di qualche tipo, dalla lusinga alla condivisione del piano scrivania magari per lo stesso disbrigo aziendale che avrei sperimentato anni dopo. In quel caso, però, un posto ce l’avevo già, e se lo prendevo letteralmente in the ass, lo sceglievo io: godimento e non strumento. Non la capivano, la differenza. E volergliela spiegare con pertinacia, con tigna, appunto, era un’ubbia del mio brutto, pessimo, insostenibile carattere del cazzo. Ma dei sentimenti, Giada, non li hai. Questa sarebbe una domanda legittima, da parte dei signori giurati. Dei sentimenti, uhm, vediamo. Prima di avere dei sentimenti, occorrerebbe pensare a qualcuno per cui averli, e no, vi assicuro che né l’azienda né l’università si sono dimostrati ambienti favorevoli alla maturazione di un’affettività adulta, prima che sana o reciproca. Se non lo vuoi, lui ti vuole per forza. Proviamo, che ti costa, poi se non va torniamo amici. Amicizia come precipitato di una meccanica insoddisfacente, degradante, in barba al sior Cicerone. 

Lei mette i fossati. 

Prego? 

Come si chiamano quelli che stanno intorno ai castelli. 

Fossati. 

E lei è la principessa che sta lì ad aspettarli. 

Beh però i cavalieri li superavano i fossati per andare dalla principessa. 

E da lei invece scappano. 

Grazie, dottor S.

Lo stagista era arrivato da poco, e come ogni neoassunto doveva trottare su e giù per i due piani dello stabile, caffè, fotocopie, faldoni, plichi, pacchi da ritirare, giù al portone, in posta, ce l’hai il motorino, sì ma è rotto e il capo gli prestava il suo pur di toglierselo di torno. Non si capiva la ragione dell’assunzione, se poi lo voleva più fuori dagli uffici che a svolgerci mansioni di una minima utilità. Lo avevo incontrato per caso al bar di sotto, si era concesso un ginseng avvampando fino al cranio, vedendomi arrivare. Mi dava del lei. Per carità, gli dissi, siamo entrambi sullo stesso canotto. Non direi disse lui tornando per gradi di un colorito normale, cioè cianotico. Perché fai questo lavoro, gli avevo chiesto dopo un po’ di convenevoli generici. Per conoscerti, mi disse. La presi per una galanteria, ma purtroppo non scherzava.  Mi seguiva su Instagram, era convinto fossi cosa venuta dal cielo direttamente dal sonetto di Dante, lo ripeteva in continuazione, era innervosente come un pazzo. E ora che hai constatato che era tutto merito dei filtri, cosa aspetti ad andartene. Voglio fare l’amore con te. EH?!? Accettai di prenderci un caffè l’indomani, in un posto che non fosse troppo vicino agli uffici per non guastarmi la reputazione e non innervosire il capo. Ma il capo a sua volta come in una sceneggiatura rappezzata con poca fantasia era proprio lì che quel giorno aveva deciso di fare pausa, assieme a una che non era una stagista ma come mi avrebbe detto poi “un’investitrice, un pezzo grosso. Tu invece che ci facevi con Scheggia”. Lo chiamava così per antifrasi: era lento e non particolarmente sveglio, c’è da dire che io ero distratta dalla presenza del capo e non gli avevo prestato grande attenzione. Captavo parole come infanzia, paese, madre, ma non erano appigli per me: non ho mai tollerato la condivisione di sfighe, una volta degli amici mi avevano proposto una specie di lega degli orfani, ma per fortuna non se ne fece più nulla per timore che qualcuno s’imbucasse. Servono referenze certificate pure per piangerti addosso. Insomma, tra una lagna e l’altra la sua pausa era finita, mentre io nemmeno mi sarei dovuta trovare in zona quel giorno, il che sicuramente agli occhi del capo era un’aggravante degna di mobbing. Cominciavo a fantasticare su qualche punizione corporale di una qualche recondita piacevolezza quando arrivò la sua faccina su WhatsApp: vomitava. Talvolta decidere se e cosa ribattere è un processo di vaglio tortuoso peggio delle decisioni di vita tipo quale facoltà scegliere oppure cosa servire al menu di nozze. Intanto lo stagista mi fissava in attesa di non so quale risposta. Bene, gli dissi a mo’ di commiato, e presi ad allontanarmi in una direzione opposta a quella dell’ufficio, con l’intento di seminarlo. Dopo un tempo ragionevole feci irruzione nella stanza del capo. Andata bene la pausina con l’amichetto? A fine mese lo sbatto fuori, non ti ci abituare. Perché ha fatto merenda con me? Non ti dare troppa importanza: è un incapace. Avrei preferito una conversazione come questa, invece il capo si limitò a fissarmi senza una parola.  Intanto pensavo al dottor S, a quello che mi avrebbe consigliato. Funziona così, l’analisi, è un manuale di risposte attenuate, di freni cautelativi, di strategie di sostegno agli urti, agli imprevisti o cosa, a cosa serve esattamente, se di guarire non se ne parla. 

Lei vuole giocare sempre alle sue regole, ecco perché nessuno la sopporta. 

Nessuno-la-sopporta: e diamine. Versare l’obolo per vedersi recapitare referti simili è quasi peggio che dipendere dal gioco, sperperare. Forme di masochismo omeopatico, ricondotto a utile, sto cercando di guarire, di migliorare (ha mai visto qualcuno cambiare, in questa stanza, dottor S?). 

Sono al cinema e all’improvviso non vedo più passare le immagini sullo schermo, non so più nemmeno se sono al cinema, mi ricordo vagamente di esserci entrata, ma intorno è nebbiolina e sento le gambe smaterializzarsi: ghermisco la borsa, comincio a rovistarci. Estraggo un pacchetto di cracker, li fraziono in piccoli pezzi che ingerisco quando il protagonista alza la voce, aspettando il commento sonoro per i più grandi. Ssssst, dice lei. Lei, con il fidanzato accanto. Lei con il carattere che magari dicono bello, oppure no, ma almeno lui non è scappato, quello che le siede vicino e abbozza un sorrisetto, non si capisce se diretto a me, per complicità tra vittime di colei che zittisce e impera, o rispetto alla censura della grave trasgressione di cui mi sono macchiata. Mi ricordo quello che dice il dottor S, un ego molto pronunciato si lascia scalfire da ogni minimo attacco, il che mi pare controintuitivo ed è per questo che decido di non rispondere, sulle prime: se lo facessi dimostrerei che ho un ego scalfibile, quindi gigante, ma il dottor S lavora sul suo ridimensionamento, e dunque non posso reagire, e piuttosto, come dice il dottor S, assecondare. Devi smetterla, dice di nuovo lei, a voce ben udibile da tutti, stavolta. Mio padre non mi ha mai picchiata. Ma l’ho visto picchiare i fratelli, e questa immagine mi torna di raffa alla mente e mi provoca piacere. Immagino ci sia lei, sotto quelle cinghiate. Ho torto io, rea di cracker al cinema, ma è lei che le prende. Intanto sto zitta, sento che avrei bisogno di toccarmi, mi alzo. Mentre esco dalla fila la guardo e ripassando in successione tutti i consigli gli ammonimenti i correttivi le prescrizioni del dottor S, stolida, le sussurro, riuscendo a dominare a puntino la voce, i nervi, l’istinto di quantomeno rovesciarle il sacchetto di briciole sulla gonna. Stupida, traduco per me, e mi rivolto. È un bel traguardo, per il mio brutto carattere.