“E se dico brugola?”
“Mm-m”
“Carta da parati”
“Mmmmm”
“Guest room, pavimento autoriscaldante”
“Oh sììì”
“Open house, open space, luci automatiche, tarme nelle fondamenta, buttiamo giù tutto”
“Sto venendo…”
“Milleduecento euro per questa parete ed è fatta.”
“Aspetta un attimo… Quanto??”.
E se poi dietro non ci fosse nessuno a guardare? E se dietro la parete non ci fosse niente da guardare?
Ho ricominciato la serie tv Fleabag (scritta e interpretata da Phoebe Waller-Bridge (2016-2019) e alcune domande mi assillano. La prima: come fa la mia amica C. ad assomigliare così tanto alla protagonista? La seconda: essere ossessionati dai programmi americani sulle case (Casa su misura, Fratelli in affari, Una coppia in affari) è un atto di masochismo generazionale (preferiamo vedere costruire le case degli americani in tv perché sappiamo che noi non potremmo mai averne una di proprietà)? O una vendetta culturale perché sulla base della supposta superiorità architettonica italiana (la nostra storia, la millenaria religione del mattone) sappiamo che le case degli americani presto o tardi scompariranno e le nostre, invece, no?
In Fleabag non si parla di case ma di «a young woman trying to make sense of her sexuality, her relationships, and herself» (come si legge sul «Telegraph», nella più nota recensione al monologo teatrale di Waller-Bridge che ha ispirato la serie): di una protagonista cioè che, per farlo, per dare senso alla propria vita, ha bisogno di buttare giù la quarta parete, creando un dramma intimo ma open-space, come direbbe l’interior designer di Cerco/Vendo casa disperatamente. Dunque (ed ecco la terza domanda, e la quarta e la quinta subito dopo): è così necessario buttare giù tutto per lasciarsi andare? Quanto costa rompere la quarta parete se non è di cartongesso? L’ho detto: 1200 euro, uno sproposito. Ma soprattutto: varrebbe la pena farlo anche se dietro non ci fosse nessuno?
Il punto è proprio questo. Che è impossibile che dietro le paranoie, i commenti ironici e le mancate predizioni di Fleabag non ci sia qualcuno ad ascoltarla. Dietro la quarta parete ci siamo noi perché siamo tutte come lei: amiche non troppo geniali, sarcastiche, dissociate, iperaccoglienti — al punto da non sapere più chi siamo. Come un open space o un buco del culo troppo largo (il titolo di questo articolo è una domanda di Fleabag, appunto, ma ci torno dopo).
Il nome della serie e del personaggio è la dimostrazione plastica di quanto possiamo schiacciarci sul punto di vista degli altri (un punto di vista esterno al proprio culo), verghianamente aderente alla comunità di cui facciamo parte: in famiglia e in amicizia, un po’ insultandola, un po’ ridendo con lei, tutti la chiamano Fleabag, “sacco di pulci”. E così ci abituiamo a fare anche noi. Gli strappi della quarta parete, i momenti in cui il sacco di pulci ci guarda ed elemosina compartecipazione o rimproveri, sono la cruna nell’ago della sua personalità sfuggente, così esuberante da essere sfuggita chissà dove. Siamo capaci di provare pietà per lei?

Ecco perché la seconda stagione (spoiler) subisce una svolta inaspettata quando per la prima volta qualcuno la guarda davvero, quando qualcuno che non è il suo pubblico (qualcuno che non siamo noi), per la prima volta la osserva: il prete di cui si innamora (il suo collo, i bicipiti, il gusto trash per le tonache appariscenti nel colore viola che, chi lo sapeva?, viene venduto solo in Italia) è l’unico che fa uno sforzo per conoscerla davvero, e in questo sforzo anche muscolare (del suo collo, ancora) ci svela una cosa che forse non avevamo del tutto capito: che questo parlarsi addosso, rompere il ritmo naturale della vita, è in realtà un modo per prendersi poco sul serio e non provare mai e poi mai a capire chi è “Fleabag”. Perché Fleabag è una pessima amica, una pessima sorella, una pessima figlia. Un sacco di pulci.
Fleabag sarebbe capace di provare pietà per sé stessa senza il nostro aiuto?
Tornando alla battuta sul buco del culo. Il sacco di pulci che osserviamo muoversi e dimenarsi nell’open space della sua vita tragicomica è dipendente dal sesso e, in particolare, dal porno.
Di sessualità si parla moltissimo nella serie, che proietta sulle cose e sulle persone un desiderio femminile incontrollato e incontrollabile. L’eros come fame, Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti