Guardando crescere le mie figlie mi chiedo spesso perché gli oggetti occupino un ruolo secondario nella loro vita rispetto a quello conquistato dagli schermi, che filtrano la realtà attraverso una narrativa standardizzata. Si confrontano con un unico oggetto che limita il loro sguardo. È chiaro che i miei oggetti di affezione, la macchina fotografica, la penna, lo schermo del cinema, lo stesso telefono, per loro sono tutti compressi dietro quell’unico oggetto a cui non possono rinunciare, ma cosa gli resterà nei ricordi, cosa riuscirà a scalfire la loro memoria.
Recentemente ho ripercorso una storia parziale delle cose attraverso la mostra Les Choses, al Louvre, pensata come una mappa in cui ci si muove tra nature morte ed evocazioni di oggetti, dalla preistoria all’arte contemporanea. La mostra si apre con un fotogramma di Stalker di Tarkovskij e si chiude, non a caso, con l’ultima scena di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni: la distruzione simbolica degli oggetti e di tutto ciò che rappresentano.
Nel frame di Stalker una giovane ragazza osserva immobile degli oggetti posati di fronte a lei: aspetta un loro movimento improvviso? Cerca di memorizzarne le forme? Forse semplicemente li usa per viaggiare con l’immaginazione, come i visitatori del Museo dell’innocenza di Istanbul creato da Orhan Pamuk, traduzione fisica di uno dei suoi romanzi più famosi. Nella sequenza di Antonioni dell’esplosione di una casa tardo modernista annidata tra le rocce del deserto in Arizona, la distruzione delle cose è una evidente critica alla società dei consumi. Tra questi due estremi, le cose che hanno segnato la nostra storia assumono significati sempre diversi, perché ci costringono a produrre nuove costellazioni di senso.
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