Si giocano troppe partite: l’affermazione sta diventando un luogo comune tra i tifosi, ma anche tra chi segue il calcio per mestiere, come i giornalisti sportivi, e ultimamente pure tra i giocatori. Questa stagione ha segnato un incremento significativo: la riforma della Champions League appena inaugurata ha aggiunto due partite per ogni squadra nella fase a gironi, più gli eventuali sedicesimi di finale; nel complesso si giocheranno duecentotré partite, ovvero il 47% in più rispetto alla formula in vigore fino all’anno scorso. E non finisce qui: questa è la stagione in cui viene varato anche il nuovo Mondiale per Club a 32 squadre, che partirà a giugno e farà sì che gli incontri continuino a popolare i nostri schermi anche dopo che saranno finiti coppe e campionati. 

Si giocano troppe partite. Lo hanno iniziato a dire alcuni calciatori. Se ne lamentano: giocare troppo stressa il fisico, aumenta il rischio di infortuni e compromette la qualità media delle prestazioni sportive. Ma anche per gli spettatori la fatica si fa sentire. Le partite, peraltro, sono anche sempre più spalmate nel tempo: la maggior parte degli incontri di campionato concentrati la domenica pomeriggio è ormai solo un ricordo nostalgico; ora spesso la giornata di campionato inizia venerdì e finisce lunedì. Poi martedì e mercoledì c’è la Champions, giovedì l’Europa League e la Conference. Il calcio colonizza tutta la settimana. Ai più insaziabili farà forse piacere, ma per gli altri? Forse presto si inizierà a parlare di “football fatigue” per i tifosi: cognitivamente troppo impegnativo stare dietro a tutte le partite. 

Alla fine, non siamo davanti ad altro che a un ennesimo caso di sfruttamento intensivo di una risorsa. Più partite significano più immagini da trasmettere, che significano più soldi. Dinnanzi a questa logica estrattiva poco importa se intanto il giacimento si impoverisce, se l’esperienza si deteriora, se si guardano sempre più svogliatamente partite con giocatori sempre più stanchi. 

 Del resto, anche il modo di fruire dei match non è più lo stesso da tempo. Ci pensavo l’altro giorno: stavo leggendo un libro e ogni tanto mi distraevo per controllare i risultati in diretta delle partite sul cellulare. Tutto ciò che accadeva sui campi per me si riduceva a stringate informazioni (un gol, un cartellino giallo, una sostituzione) che mi arrivavano sullo smartphone a contendersi la mia attenzione con le altre notifiche. Qualche ora più tardi avrei recuperato online giusto le immagini dei gol e di una manciata delle migliori azioni. 

“Nella nuova dimensione immateriale della società dello spettacolo, il pallone è fruito attraverso brevi ripetizioni infinite di frammenti di partita, o di frammenti di interviste e considerazioni. Sugli schermi luminosi di smartphone e tablet girano le azioni salienti, le facce più strane e i colpi più divertenti”

Il libro che stavo leggendo era Fare gol non serve a niente di Luca Pisapia, edito da Add, che parla anche di questo, di un calcio ridotto a una miniera di immagini frammentate su cui speculare:

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