Io, del fiume, del fiume in quanto corso d’acqua perenne, del fiume che scorre carsico o in superficie, del fiume fatto di pioggia e di grandine, di neve e di ghiaccio che si sciolgono, o ancora del fiume generato dalle falde acquifere sepolte sottoterra, dalle fratture, dalle polle, da tutti quei corpi idrici che punteggiano il grumo immenso del sottosuolo; io, del fiume che nasce da una sorgente e poi si include tra due argini e li asseconda e li modifica, o meglio li determina, li crea; del fiume scultore che con la sua frizione liquida erode lo spazio che attraversa producendo detriti che risalgono a mescolarsi a tutto ciò che il fiume spontaneamente o artificialmente trasporta – pietre e sassolini che rotolano rocamboleschi senza mai toccare il fondo, pezzi di corteccia, rami, cespi e intere chiome d’albero, la sabbia, il fango, una sediolina pieghevole di plastica strappata da un’ondicella prensile, predatrice, a un villeggiante domenicale che placido e imprudente si era messo seduto sull’argine, i piedi a mollo, a leggere il giornale, e che dopo essere slittato in acqua è riuscito solo per un soffio a riguadagnare la riva, a riconficcare i piedi nel solido mentre il fiume si portava via giocherellandoci questa sediolina di plastica con seduta e schienale di tela ruvida, rosso scuro, i fiori gialli e blu stampati sopra; io del fiume affamato, del fiume cannibale, del fiume che passando veloce sembra allargarsi a ventaglio assorbendo tutto ciò che incontra e trasportandolo lontano

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