Chiunque si rechi negli Usa per lavoro o studio sa quanto sono comuni – anzi, strutturali, ovvero connaturate all’ingresso sul territorio statunitense – le pratiche di racial profiling, le quali erano state poste in essere al tempo della war on drugs degli anni Ottanta, e si sono rinvigorite dopo l’attacco alle Twin Towers del 2001. 

Come ha mostrato anche la genetica (pensiamo ad esempio al lavoro, tra l’Italia e Stanford, di Luigi Luca Cavalli-Sforza), quello di “razza” è un concetto che non ha ragion d’essere. Esso è anzi uno strumento del tutto sganciato da una presunta base naturale. La sua esistenza, pertanto, è riconducibile, da un lato, a un bisogno securitario, di cui la burocrazia e l’amministrazione del paese d’oltreoceano sono espressione. Dall’altro lato, però, l’anomala esistenza della “razza”, ha anche a che fare, indipendentemente dal ben riconoscibile delirio razzista del Ku Klux Klan, con il gusto estetico (invero piuttosto necrofilo) espresso più di duecento anni fa da chi pose le basi delle odierne tecniche di racial profiling

È istruttiva, da tale punto di vista, la storia dell’aggettivo caucasian (caucasico) con cui gli europei occidentali, inclusi gli italiani, sono indotti a identificarsi quando rispondono ai questionari d’ingresso nelle istituzioni accademiche d’oltreatlantico. 

Il termine “caucasico” è stato introdotto, come ricostruisce l’afroamericana Isabel Wilkerson (Caste. The Origins of Our Discontents, Allen Lane, 2020), da un medico, fisiologo e antropologo tedesco, Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), il quale lo utilizzò nel 1795 nell’ambito dei suoi studi d’anatomia comparata e “teoria della razza” (Sulla varietà del genere umano). Blumenbach tentò di classificare le varietà del genere umano studiandone i crani, le fronti, le mascelle, le orbite oculari, in maniera non troppo dissimile da quella che adotterà Cesare Lombroso nella seconda metà dell’Ottocento. Nella ricostruzione di Wilkerson, Blumenbach – qui risiede il lato necrofilo della sua “scienza” – coniò il termine “caucasian” perché il suo cranio preferito, esemplare ai suoi occhi dell’armonia umana, proveniva dalle montagne del Caucaso in Russia. Poiché Blumenbach era europeo, egli diede all’etnia cui egli stesso apparteneva il nome della regione nella quale era stato trovato il teschio più bello tra quelli in suo possesso (gli altri erano accorpati a “razze” che lui stesso aveva denominato mongolaetiopemalese e americana). Una scelta arbitraria fondata su una percezione soggettiva, e non su un dato naturale, è quindi alla base della denominazione d’una etnia che, nell’analisi di Wilkerson, occupa la casta più elevata della società americana (quella dei discendenti degli europei, occidentali e bianchi).

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