Ci sono personaggi che travalicano i generi, le ere, le idee: che sono talmente avanti da saper parlare al presente anche dal lontano passato. Questo è il caso di Filippo Panseca, artista che, praticamente dagli anni Sessanta, è un prime mover in qualsiasi innovazione tecnologica in campo artistico, dalla fotografia agli elementi meccanici/elettronici, fino alle plastiche fotosensibili e all’arte fotocatalitica. Insomma, per farla breve, è un visionario, un vulcano di idee e un fiume di parole. Ahimè, il “popolino” lo associa solo agli anni del craxismo, poiché curò il look dei congressi del Psi, ma non ce ne stupiamo: Panseca è stato sempre una mosca bianca, il cui unico obiettivo è rendere la vita arte. Lo abbiamo intervistato in occasione della sua mostra retrospettiva Forme a futura memoria all’ADI di Milano, curata da Achille Bonito Oliva e Valentino Catricalà, provando ad approfondire i temi lasciati scoperti dal giornalismo ufficiale: per esempio, quello del suo connubio con la musica, cosa che ovviamente mi tocca da vicino.

Filippo, iniziamo parlando della tua capacità di essere stato un pioniere nell’uso delle nuove tecnologie nell’arte, nei multimedia. Sei uno dei due padri della computer art, insieme a Laurence Gartel.

Io faccio delle cose che mi va di fare, non me ne fotte un cazzo se qualcuno le fa prima o non le fa. 

 In tempi non sospetti trasmettevi ovunque le tue opere nel mondo… usando i satelliti.

Io le trasmettevo perché mi ero incazzato per il fatto che andavo negli Stati Uniti, e alla dogana, la prima volta, mi fermarono. Avevo una sacca dei marines con dei miei disegni dentro e quello che era alla dogana mi disse: “Che c’è qua dentro?” . Prima mi chiese se avevo qualcosa da dichiarare, in inglese, e io non capivo un cazzo, ma dissi di no. Poi mi fece aprire, vide dei disegni e mi fece pagare la multa: ma erano disegni miei, non di Picasso! E all’epoca non valevano niente, ero giovane: e mi sono incazzato perché tu pensa se invece che un artista ero un cantante: che mi diceva: “tu c’hai la voce devi dichiararla”? Perché io come artista devo materializzare per forza la mia opera, altrimenti nessuno la vede: ma se invece la mia opera la smaterializzo e la faccio rinascere di là, oltre la frontiera, non possono dire più niente. E allora mi sono messo a pensare: all’epoca non c’era internet, c’era il telefono e dovevi chiamare il centralino per fare le interurbane. E a quel punto ho scoperto che sì, c’era la Guerra fredda, ma gli americani e i russi utilizzavano i satelliti per mandarsi notizie. E varcavano tutte le frontiere senza chiedere il permesso a nessuno, con i loro codici. E mi sono detto: “Cazzo, ma se io usassi questa rete per mandare i miei quadri a New York o in Russia?”. Certo, si può fare.

Quindi praticamente la faccenda dell’uso del computer e delle opere digitali che hai sviluppato nel biennio ’79-’80  è  nata da esigenze piuttosto concrete, pratiche.

In realtà nasce molto prima, quando dissi a Restany: “Senti Pierre, vorrei fare una mostra”. Avevo pensato di utilizzare il panfilo di Guglielmo Marconi, quello da cui inviò il primo segnale audio addirittura in Australia e  accese le luci a distanza. All’epoca feci delle ricerche, allora non c’era internet, e cominciai a chiedere dove fosse ’sto cazzo di panfilo e venni a sapere che era a Trieste, in un molo, ed era proprio una roba tutta scassata, arrugginita. Ma dissi: “vorrei provare a trasmettere le mie opere da questa nave abbandonata, per dare più risalto alla mia idea”. Non fu possibile. Era il ’75 e a Restany l’idea comunque  piacque e scrisse a tutta una serie di critici attraverso la rivista «Domus», di cui era direttore. Ci sono documenti d’archivio a testimoniare che hanno risposto pure i giapponesi. La mia idea era coprire Milano, Londra, Parigi, New York e Tokyo e mandare contemporaneamente nelle gallerie d’arte cinque mie opere: si apriva la galleria, loro stampavano e mettevano in vendita. Fu il primo esperimento in questo senso.

Ma tu sei anche un po’ l’Andy Warhol italiano, dico male?

No, Andy Warhol non c’entra un cazzo.

Ah ecco, appunto…

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