Da sei mesi avevo violente crisi di pianto senza un motivo apparente. Gli occhi mi si riempivano di lacrime e il respiro mi si faceva affannoso. Non c’era modo di prevederlo, succedeva e basta, e succedeva sempre. Mentre lavoravo, mentre lavavo i piatti, mentre aspettavo in fila alla Posta. Avevo bisogno di fermarmi e pensare, di essere ascoltata, di sentirmi al sicuro, di condividere la mia angoscia con qualcuno. Ma, avendo poco tempo da perdere, decisi di andare in terapia.

La seconda stagione della serie televisiva Fleabag si apre con il racconto di una disastrosa cena in famiglia. Colori scuri, atmosfera cupa, abiti eleganti: la tuta nera della protagonista, con la schiena scoperta e una profonda scollatura sul davanti, è un tentativo di sembrare in ordine e di negare la situazione disfunzionale (visto il picco di vendite di abiti simili dopo la messa in onda, un tentativo riuscito). Sembrare in equilibrio è quasi più invitante di esserlo davvero: permette di affrontare non detti, accenni di sorrisi, persone che evitano i reciproci sguardi, portate poco invitanti e quel coefficiente di ipocrisia necessario a evitare che i commensali si alzino da tavola prima del tempo. Le famiglie, tendenzialmente, non sono rilassanti. 

Sei sola al mondo e non hai nessuno con cui parlare? Se ne esce. Hai una famiglia detestabile? Nessun problema. Vuoi fare sesso con un prete cattolico? Bene così

A squarciare il velo della calma apparente interviene il dono fatto alla protagonista dal padre: un buono per una seduta di counceling, regalato come si regala una seduta di pulizia del viso a un’adolescente coperta di brufoli, quasi a dire “Rimettiti in carreggiata, figliuola”. Il buono, che serve a traghettare la giovane donna tra gli interni di un appartamento elegante nel cuore di Londra, ci introdurrà in un quadro piuttosto preciso dei significati attribuiti alla terapia nel panorama culturale contemporaneo. Andare dallo psicologo, sembra suggerire Fleabag, non è solo utile ma anche piacevole: l’analista è dipinta come

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