Ti dicono di fotografare, cogliere l’attimo della tragedia, il punto in cui l’anima non si nasconde più e sfugge in una piega degli occhi, una curva della bocca. Ne hai passate tante, ti sarai abituato. È il tuo dovere. Sono interessati a sapere come. Come ci si abitua alla guerra, come succede che davanti a un morto ammazzato ti viene in mente di fotografare. Ma a loro non importa sul serio. Vogliono le tue foto e tu vuoi fotografare. Un tempo pensavi fosse atroce. Un tempo pensavi fosse anche il tuo dovere. Ragionavi sull’etica del tuo gesto, sul diritto che avevi o non avevi di isolare la guerra su una fotografia, permetterle di tornare, ancora e ancora, di raggiungere ogni casa, anche dall’altro capo del mondo. Una volta ti eri detto che preferivi sporcarti le mani. Che quella era la tua vocazione, ciò che in fondo ti rendeva felice. Una volta ti sembrava di essere parte della Storia. Adesso non pensi a niente. Adesso sei fuori. Da una foto a cento passa l’intervallo di una raffica di mitra. Il rumore dello scatto accompagna ogni colpo d’arma tanto da sembrare il suo fratello minimo, innocuo, il gemello buono. Lo scatto è la tua arma mite. Ti protegge, dicono. Ha suono di battaglia, microscopico. Devi documentare tutto. Le case crollate, i bambini senza braccia, il sangue che ti sporca le dita. Una volta avevi paura. Quando la paura passava, ti sentivi sollevato, entravi nel rifugio e la tua pace era infranta di nuovo, senza motivo. Erano fantasmi, i fantasmi entravano in casa a dirti che non potevi riposare, che era un miracolo se eri ancora vivo. I fantasmi confermavano che lo eri. La paura confermava che lo eri. Una volta non era possibile avere pace, né rifugio. Adesso: niente. Ti sembra non ci sia altro che tu, e poi il mondo, dall’altra parte dell’obiettivo. Due universi separati da uno schermo grande poco più di un occhio. Adesso non ci sono fantasmi da nessuna parte. Devi guardarti allo specchio per sapere se sei ancora vivo. Adesso non ci sono specchi da nessuna parte. Devi parlare. Devi soprattutto cercare di avere paura.

Vedono che qualcosa non va, ma fanno finta di niente. Ti chiedono solo se è tutto ok, tu rispondi Sì. I tuoi occhi, è come se non vedessero. Ti conoscono, sanno che non sei uno che fa storie. Ma è vero. È tutto ok. Hai inviato venti scatti al giornale, i tuoi capolavori. Gli altri li rifili a qualche sito internet, qualche rivista secondaria. Il tuo giornale ti fa arrivare i complimenti e ti ringrazia del lavoro, del coraggio. Non ti senti né triste né felice. Potresti continuare questa vita per sempre, potresti smettere domani. Non c’è nessuna differenza. Cerchi il confine tra quello che vuoi e quello che non vuoi, tra cosa temi e cosa ti è indifferente. Ma qui è tutto un confine. Qui è tutto una casa che si apre a metà come un giocattolo, un deserto pieno di bambini. Nemmeno loro ti fanno più pena. Non stringi più gli occhi, hai la forza di guardare tutto. Hai costruito una pellicola resistente. Il tuo corpo è ricoperto da millimetri di piombo. Niente passa. Anche tu sei un confine.
L’altra sera ti sei trovato in mezzo a un bombardamento. L’hai fotografato come uomini e donne fotografano i fuochi d’artificio. L’immagine ti varrà un premio importante. C’è una striscia luminosa a squarciare il cielo rosso, viola, ancora pieno di stelle.

Ti devi riposare, hanno deciso. Prendi l’aereo e torni a casa. Lei ti viene a prendere, è tutta una lacrima di gioia. La invidi. Tu non provi gioia. Tu sei sempre fuori. Ma puoi fingere. La abbracci, cerchi di sfregare il tuo corpo contro il suo, di stare attaccato a lei il più tempo possibile, per far credere che ti importi. A casa vieni nutrito. Non senti il sapore del cibo, la consistenza ti è indifferente. Senti solo lo stomaco che diventa più pesante, che soffre un po’ meno. Rivedi qualcuno che ti è caro. Passeggi in una città che non conosce coprifuoco, che guarda il cielo solo per sapere se pioverà, o dove vanno gli aeroplani. Vieni servito, amato, puoi riposare. Dormi tutto il tempo che puoi. Ma non ti riposi. Non stai bene da nessuna parte. Quando sei a casa, pensi alla guerra. Quando sei in guerra, pensi a casa. Il ponte tra questi due universi sono le tue fotografie. Le guardi. Sembrano lontane. Allora apri il cassetto e guardi le foto dei tuoi cari. Sono lontani. Non sei da nessuna parte. Il ponte è crollato. La casa è in rovina. Scatti foto a lei, a tua madre, a tuo padre che ti viene a trovare tutti i giorni e ti parla della sua pensione. Tutti ti dicono di restare, che hai già fatto il tuo dovere. Tutti ti dicono di smettere di fotografare. Restare dove? Non sanno che sei lontano. Il tuo posto si chiama Isola. Da qualche anno è lì che vivi. Sei solo, circondato dalle onde, se parli nessuno ti ascolta, non puoi urlare. L’isola ha una luce particolare, bellissima, offre tutta la strumentazione. L’isola è il posto ideale da cui scattare le tue fotografie.

Dopo una decina di giorni decidono che ti sei riposato. Ti mandano in un’isola vera dove sbarcano i reduci di un nuovo olocausto. Ti dicono che non è la guerra, che questa volta sei stato fortunato. Ti dicono, niente bombe, tranquillo. Devi pensare che ti è andata bene. Lo pensi. Torni all’aeroporto. Il tuo volo parte alle quindici e trenta, manca più di un’ora. Osservi tutti. Sono molto colorati, indossano vestiti leggeri, da vacanza. Tu sei grigio. Tu non vai in vacanza. Ma questa volta sei stato fortunato. Il massimo che puoi beccarti è una qualche malattia africana, se non stai attento, se ti avvicini troppo senza guanti e mascherine. Ma tu non hai paura delle malattie. Tu non indosserai guanti e mascherine. Tu hai solo paura di non fare belle foto. Sei stanco. Non hai fatto altro che dormire, ma sei stanco. Pensi a come sarà bello fotografare il mare, dopo anni di sabbia e cielo. Pensi alle regole di composizione. Ti figuri già le foto che andrai a scattare. Nella prima, un gommone giace in mezzo al mare come un guscio rovesciato. Il meglio sarebbe riprenderlo dall’alto, ma non sai se avrai i mezzi. Te li procurerai. Devi fare quella foto. Il mondo piangerà per quella foto. Potrai cambiare leggi e le mentalità più ottuse. È per questo che hai scelto il lavoro. Questo è il motivo di ogni scatto. Cerchi di ricordarlo. Poi immagini un’altra foto. Un uomo annaspa in mare e allunga il braccio come in quell’affresco di Michelangelo che andavi sempre a visitare nella cappella Sistina. La Creazione di Adamo. Speri che la sua posa sarà morbida come nel quadro, che la citazione risulti esplicita. Provi disgusto per te stesso. Provi disgusto per questa fantasia. Non dovresti pensare alle ombre, ai volumi, al taglio di luce perfetto. Ma ci pensi. Cerchi di convincerti che quel profugo in mare non è Adamo. Eppure tu sei dio. Un dio che non protende l’indice verso l’uomo nudo, inerme. Un dio che non allunga la mano. La mano di dio in questo caso è occupata. Fotografa. L’aereo atterra. Vieni invaso da una luce estiva. Ti hanno parlato bene degli isolani, ti hanno detto che sono degli eroi. Come te. La luce è perfetta, andrà catturata. Quei visi scuri sembreranno più luminosi, la loro sofferenza sembrerà brillare. Saprai esaltarla. Saprai rendere loro giustizia. La fermerai. La ingrandirai. La farai viaggiare per il mondo. Continuerai a non provare niente.

Il primo giorno scatti circa settecento foto. C’è ancora troppa confusione, non riesci a regolarti. Non sei abituato a lavorare con l’acqua, non sei abituato ai suoi riflessi, a quella trasparenza ambigua. Studi, mentre quei pochi si mettono in salvo. Anche loro scattano fotografie. Sono felici. Sorridono ai cellulari, i denti rotti e bianchissimi, le braccia nervose, nere, fatte di niente. Fotografi loro mentre si fotografano. Fotografi loro mentre ti fotografano. Non riuscite a guardarvi in faccia. Non esiste distanza più grande di quei pochi metri che separano i tuoi occhi dai loro. La distanza tra la mano di dio e quella di Adamo. Si allarga. È fissa, infinita. Siete braccia e gambe su una testa meccanica, una testa di robot che riproduce immagini. Pensi che domani avrai capito. Domani avrai trovato la chiave per fare emergere quei corpi, la loro forza, la disperazione che li ha portati alla salvezza. Passi il resto del giorno a fotografare l’acqua. I pesci nell’acqua, i gommoni vuoti nell’acqua, la loro ombra che si increspa sulle onde, i tuoi piedi nell’acqua. Butti un sasso, due. L’acqua non è trasparente come credevi. Sul fondo ogni cosa scompare per sempre. L’acqua non ti evoca nessuna libertà. Nell’acqua il sole si scompone in fili luminosi, i fili formano una rete immensa, bellissima. Il mare è una prigione.

Il secondo giorno sei già abituato. Scatti come se non avessi fatto altro che lavorare in quell’isola, da sempre. Ti portano al largo, i nuovi sono tutti annegati. C’è molta confusione. Continui a essere solo. Pensi alla foto che dovevi fare, alla foto della barca rovesciata. Chiedi se potranno darti un mezzo per scattare dall’alto. Spieghi le tue motivazioni. Gli eroi non rispondono. Guardano davanti a loro, i capelli spostati dal vento che riga d’acqua i loro visi. Corrono sul mare per salvarli. Sono lì. Fotografi loro, poi il vento. Li guardi e non riesci a capire. Fotografi ancora. Ti dici che quello è l’unico modo che hai per continuare a non sentire niente.

Qualcosa si apre. Nel mare vedi un cimitero. Cerchi di chiudere quella piccola ferita che potrebbe sanguinare a lungo. Credi per sempre. Ti ripari ancora dietro l’obiettivo. Scatti a raffica, non smetti fino a notte. Torni in albergo e non riesci a dormire. Non sei turbato, sei solo vigile. Non ti abbandonerai a nessun incubo. Non ti accadrà niente. La macchina che porti al collo ha di nuovo chiuso la ferita. 

I giorni passano lenti. Alcuni tuoi scatti sono opere d’arte. Cerchi di complimentarti con te stesso. Gli altri lo fanno per te. Hai fotografato singoli e masse, barche e pezzi di spiaggia. Il mondo piange grazie a te. Il mondo si scandalizza grazie a te. Non lo sanno, ma è per questo che sei un eroe. Il mare è pieno di ghirlande di fiori. Le hanno buttate gli isolani per celebrare i morti, dare loro la dignità che meritano. Nella tua inquadratura i fiori sono minuscole barche sulle onde. Non hanno radici, non hanno modo di raggiungere la terra. Dovrebbe nutrirli, ma è lontana dalla superficie dell’acqua. Quando sprofonderanno, ritroveranno casa.

All’aeroporto esamini il tuo lavoro. Scorri le foto ad una ad una. Una bambina piange perché non vuole andarsene. A mala pena ne senti i singhiozzi. Ma distingui le parole. «Voglio stare qui». Ripete la parola mamma, almeno una decina di volte. Il suo accento siciliano si diffonde dentro di te come un rivolo di sangue. Pensi che sarebbe giusto, per quella bambina, non partire. Ma partite. L’aereo è molto pieno. Non riesci a non pensare che il tuo aereo è una barca. Le nuvole sono i pesci dell’aria. Nemmeno l’aria è trasparente. Sorvoli l’isola. Anche l’isola è una barca rovesciata. La guardi dall’aereo, un’immagine netta e bellissima. Non fotografi.

All’aeroporto c’è sempre lei. Tornate a casa. Vieni di nuovo servito, amato. Ti senti pesante, esausto. Scendi in cantina e ritrovi la tua prima macchina fotografica. Una vecchia analogica incartata in un giornale. A fianco giace un rullino inutilizzato. Lo inserisci meccanicamente, e sali le scale. Sono arrivati tutti. Lei, tuo padre, molti amici. Sorridi. Mostri il tuo reperto. Si mettono in posa. Blocchi i loro sorrisi, le loro moine. Sono molto felici di rivederti, di stare con te. Felici che tu sia tornato. Ti danno pacche sulla spalla, ti dicono che provano profonda stima. Tu pensi di non meritare niente. Abbassi la testa e ringrazi. Sei ancora lontano. La mattina dopo entri nella camera oscura. Immergi la carta nella bacinella dove hai versato il liquido per lo sviluppo. Agiti la bacinella, come hai sempre fatto, e aspetti i secondi necessari. L’immagine comincia ad apparire. Sono i visi dei tuoi cari. A poco a poco emergono dalla superficie liquida. Li guardi, sembrano ghirlande. La bacinella è un mare. Partono per mettersi in salvo. Finalmente, la ferita si apre.