C’è un passo rivelatore di una lettera di Milena Jesenská a Max Brod dei primi di agosto del 1920. Franz Kafka, che in quel periodo intratteneva una relazione a dir poco tormentata con Jesenská, sarebbe morto meno di quattro anni dopo in una casa di cura nei pressi di Vienna. E sebbene ampi territori della sua opera fossero a quel tempo nell’ombra, dubbiosi se venire alla luce o meno, l’essenziale su Kafka appare già noto a coloro che lo circondano. Jesenská osserva:
Certo è che tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo o in qualcos’altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo. È assolutamente incapace di mentire come è incapace di ubriacarsi. È senza il minimo rifugio, senza un ricovero. Perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti.
La stessa impressione si fa strada in chi oggi s’accosta a Kafka per la prima volta. C’è qualcosa in Kafka che, invece di sfuggire allo sguardo, lo respinge. Si offre con una chiarezza spaventosa e muta, perché totale: «dinanzi a noi press’a poco come, in un’aula scolastica, il quadro della battaglia di Alessandro Magno». Nel frammento originale di Kafka, dai Quadernino in ottavo, il primo termine del paragone è la morte.
Il mondo di Kafka non è più il nostro, non ha quasi nulla in comune con l’Europa centrale primo-novecentesca e quei sistemi di potere schiaccianti e beffardi che nella sua opera stabiliscono l’orizzonte di tutto ciò che esiste
A questa estraneità, che ha valore universale, se ne accompagnano altre storiche e linguistiche. Il mondo di Kafka non è più il nostro, non ha quasi nulla in comune con l’Europa centrale primo-novecentesca e quei sistemi di potere schiaccianti e beffardi che nella sua opera stabiliscono l’orizzonte di tutto ciò che esiste. Forse chi ha fatto esperienza diretta di un regime totalitario ha qualche elemento comune in più, come notava decenni fa Milan Kundera, nato e cresciuto a Praga sotto lo stalinismo. Ma noi, in Italia, che leggiamo per lo più in traduzione e siamo remoti dal mondo di Kafka? In che modo questa distanza può (e in qualche misura deve) trasformarsi da difetto a risorsa inaspettata di conoscenza?
La domanda riaffiora pagina dopo pagina in un breve libro di Mauro Covacich (Kafka, La Nave di Teseo), uscito pochi mesi fa per il centenario della morte: e non ha una risposta chiara. Più chiari sono gli obiettivi del testo,
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