L’ultimo film di Abbas Kiarostami, 24 Frames, portato a termine nel 2017 da suo figlio Ahmad, è costituito da animazioni digitali di ventitré fotografie e di un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, I cacciatori nella neve (1565). Il titolo si riferisce alle ventiquattro “inquadrature” animate che compongono il film, ma anche ai ventiquattro fotogrammi al secondo che, nel cinema del passato, venivano fissati sulla pellicola dalla macchina da presa e venivano proiettati sullo schermo, consentendo l’illusione del movimento grazie al fenomeno della persistenza dell’immagine sulla retina dell’occhio. Solo che Kiarostami non usa più la pellicola: tutto è digitale, e il movimento viene creato artificialmente.

Kiarostami ha raccontato di essere partito dall’animazione del quadro di Bruegel (neve che cade, fumo che esce dai camini, corvi che volano, cani che fanno la pipì contro un albero), ma di essersi stufato subito e di essere passato alle fotografie: per ciascuna delle quali immagina e ricostruisce, nell’arco di qualche minuto, ciò che è successo prima e dopo lo scatto originale, che non è mai identificabile. Nei microracconti che si creano spesso non succede granché: molti sono gli animali (cavalli sotto la neve; papere che procedono sulla spiaggia; leoni che si accoppiano; un gregge, un cane, un lupo; un cerbiatto ucciso da un cacciatore fuori campo…), rare le presenze umane (turisti – iraniani? – davanti alla Torre Eiffel).

Alla fine di questo percorso Kiarostami è approdato a una ricostruzione totalmente artificiale della realtà e del tempo che scorre. Perché?

Kiarostami era partito da un cinema didattico e neorealista (Dov’è la casa del mio amico?, 1987) ed era arrivato presto alla metanarratività (Close-up, 1990); si era avvicinato all’irrappresentabile (Il sapore della ciliegia, 1997) e poi, scoprendo il digitale, aveva trovato una nuova aderenza al reale: Dieci (2002), realizzato con due telecamerine piazzate sul cruscotto di un’automobile, in pratica è un film senza regista. Ed era arrivato alla videoarte con i piani-sequenza spesso senza esseri viventi, eppure inevitabilmente narrativi, di Five (2003). Alla fine di questo percorso Kiarostami è approdato a una ricostruzione totalmente artificiale della realtà e del tempo che scorre. Perché?

In 24 Frames il cinema, se si può chiamare ancora tale, diventa una borgesiana mappa dell’impero, un doppio fittizio che aderisce come una pellicola (digitale) alla preziosa, inattingibile banalità del reale. Nell’ultimo segmento di 24 Frames una donna si è addormentata (o è morta?) davanti allo schermo di un computer dove le immagini di un film hollywoodiano in bianco e nero (I migliori anni della nostra vita di William Wyler, 1946) scorrono inesorabilmente, anche se al ralenti. All’esterno, dietro una finestra, stormiscono le fronde. È un altro tempo, il tempo della realtà contrapposto a quello del cinema: ma gli alberi mossi dal vento sono una simulazione digitale. La spettatrice dorme, mentre il tempo, vero o simulato, rallentato o verosimile, scivola via. In colonna sonora, però, si sente la canzone Love Never Dies di Andrew Lloyd Webber, dal musical omonimo del 2010. Per questo il finale di 24 Frames è anche una riflessione sull’immortalità del cinema, che sopravvive sugli schermi dei pc, nell’era in cui tutto può essere ricostruito e simulato digitalmente. Un anticinema che diventa l’apoteosi del cinema.

Pieter Bruegel il Vecchio, “I Cacciatori nella neve”, 1565, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Ho sempre pensato che 24 Frames fosse una delle riflessioni più profonde e commoventi sulla natura e il destino del cinema a cavallo tra tre secoli e due millenni. Poi, quest’anno, mi imbatto su un social nella pubblicità di un software per animare digitalmente le fotografie: il deepfake alla portata di tutti. E, un po’ stranito, scopro vari siti che

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