Nelle numerose recensioni della Biennale uscite negli ultimi dieci giorni, quasi tutti i critici cercano in ogni modo di stare in equilibrio tra il rispetto per Stranieri Ovunque – questo il titolo di quella che per forza bisogna tornare a chiamare “kermesse” – e il reale sentimento che li ha invasi, e li capiamo pure. Sottolineano giudiziosi come il curatore – autodefinitosi “queer”, Antonio Pedrosa – abbia fatto del suo meglio nell’includere per la prima volta nella storia di questa centenaria istituzione intere porzioni di mondo (sudamericano in particolare, ma non solo) prima semplicemente ignorate dall’appunto ignorante rullo compressore bianco, eurostatunitense e genericamente “abstract”, se non fosse per le ultracelebrate edizioni gemelle e coniugali (perdipiù) curate da Massimiliano Gioni e soprattutto Cecilia Alemani (in questo caso il nome del gioco era “DONNA, da sempre esclusa”, e chi può dire niente). Lì, la narrazione e la figurazione a man bassa avevano preso il sopravvento, e anche i defunti, riesumati a man bassa. In ogni caso. Da “Ceciliona” (come viene chiamata nell’ambiente) Pedrosa prende l’attenta elencazione delle aree anche storiche (il surrealismo e il modernismo che hanno contaminato gli altri mondi geografici nel Novecento, finora espulsi), aggiungendo alla mala parata sparute espressioni contemporanee spesso abissali.

Salvo le migliori: il cyberchic di Wang Shui e il fantastico video di macho in moto di Karima Amadou che chiudono l’Arsenale, e la remota capanna di Anna Maria Maiolino (Leone d’Oro alla Carriera, alla buonora, soffocata nei Giardini). E c’è pure – sebbene fuori dallo show principale – un buon semplice lavoro di Massimo Bartolini che salva dalla solita palta il Padiglione Italia. Queste isole disperse in mezzo alla cavalcata millecolori delle due sedi della mostra di Pedrosa non vengono spesso nominate perché, ad un certo punto, finalmente, ci si lascia andare dichiarando stanchezza per la mappazza di “disegni di sapore primario e pietre falsamente primitive, tra palme esotiche e rappresentazioni del diverso spesso già viste su cestini e ricamini comperati in un viaggio” (cit.). Botta ironica che potrebbe torcersi contro agli scrivani, considerando che la gran parte del lavoro è derivante dal lavoro insieme a spiriti, entità e potenze vegetali che non si dovrebbero maneggiare con questa leggerezza.
La verità è che, spesso nemmeno nominando l’unico reale capolavoro presente ai Giardini, il magnifico melodramma di Wael Shawky, non si è colto il vero lavoro messo in piedi perfidamente da Pedrosa: lo humour e l’irrisione contro la pseudo-intelligenza occidentale specie se concettuale; la presa in giro delle “capsule” della Biennale dell’Alemanni con le tre quadrerie al Padiglione Italia veramente estreme (in particolare quella dei ritratti, un’allucinazione che è una pietrata in faccia alla figurazione da Gallerie di Arte Moderna delle città europee e non); un affronto alla serietà stessa dell’istituzione Biennale con la pagliacciata dell’ingresso della mostra e la virale costrizione al colore frufru di tutti i padiglioni nazionali (spinta al massimo dalla fantasmagoria estrema di quello svizzero).

Una sorta di vitalità già morta che si concretizza nella percentuale mai raggiunta del 55% di artisti deceduti rispetto a quelli viventi. Per non parlare della noia esibita e della riduzione bidimensionale a “identità e colonialismo” dell’intero lavoro che si sta facendo su questo campo da anni, ignorandone gli sviluppi. Ciò ci porta alla costruzione di una sorta di canto del cigno di baracche culturali di questo superato tipo, uccise da una sorta di ritrovato (e condiviso da un drappello di illuminati) amore del curatore per la semplicità sovversiva e forse addirittura per la stupidità da contrapporre al pensiero produttivo ed evolutivo per secoli dominante, ormai distrutto dai fatti del mondo. In questo, il gesto complessivo di Pedrosa è davvero “queer” e inaspettato. Ah, e il regalo della velocità: si fa tutto in mezza giornata, casette nazionali ai Giardini comprese. Mica poco.
