Per me che vivo in un perenne 1987 l’incontro fra Mike Tyson e Jake Paul è stato un viaggio allucinante in un futuro distopico, arredato dal capitalismo fracassone degli scemi del villaggio: gli influencer.

L’evento. Dodici mesi di attesa per sedici minuti di Nulla. Un siparietto smorto. I due «sfidanti», più che boxare, hanno preso impunemente a calci il cadavere di Guy Debord. La società dello spettacolo è estinta. Nel momento clou della nottata il live streaming di Netflix cede al volume del traffico. Su Twitter c’è mezzo pianeta che sbraita contro le immagini ridotte a mucchietti di pixel.

Jake Paul. È più che uno scemo del villaggio. È il Trionfante Scemo di Ogni Villaggio. Ci prova con la barba, coi vestiti sgargianti, ma rimane un coatto nella media, un po’ Conor McGregor un po’ il Nerone di Peter Ustinov. L’espressione degli occhi è tra l’Appena Senziente e la Lobotomia Recente, insomma è il tipo giusto, nel 2024, per attirare inconcepibili flussi di denaro. Quando parla ti fa rimpiangere i servizi di Vittorio Orefice da Montecitorio. L’esaltato speaker dell’AT&T Stadium di Arlington lo annuncia come «content creator», ti raccogli in preghiera e supplichi l’Onnipotente – un altro content creator mica da ridere – di creare all’istante un set di bestemmie inedite da spendere là per là.

Mike Tyson. È finito ventidue anni fa, quando

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