È fermo davanti alla porta chiusa. Si domanda da quanto tempo non entra in quell’appartamento. Si risponde che non entra in quell’appartamento da un anno. Si domanda quale possa essere l’aspetto di un appartamento rimasto disabitato per un anno. Si risponde che non lo sa. Si domanda quale possa essere l’odore dell’aria di un appartamento in cui non si cambia l’aria da un anno. Si risponde che sarà un odore di chiuso, ma tutti i ricordi di odori di chiuso che gli vengono in mente sono ricordi di odori di case di vecchi, case abitate dove non si aprivano mai le finestre. L’odore di chiuso delle case di vecchi è un tanfo, pensa. Si domanda se l’appartamento sarà sporco o pulito. Si risponde che, essendo l’aria rimasta ferma per un anno, forse tutta la polvere si sarà depositata sui mobili e sui pavimenti. Ma se tutta la polvere si è depositata sui mobili e sui pavimenti, allora forse l’aria non avrà nessun odore. È la polvere, che dà all’aria il suo odore? Forse non è la polvere. Si domanda se sono rimaste, nell’appartamento, quando se ne è andato un anno prima, cose che potrebbero essere andate a male, essersi corrotte, imputridite, putrefatte. Si risponde che no: nell’appartamento sono rimasti i mobili, le cose, i vestiti, i libri. L’appartamento è pieno di libri. Il riscaldamento è rimasto spento per tutto l’inverno – è aprile, ora – e forse l’umidità se ne è impadronita. L’umidità, se non si cambia l’aria, si rifugia nei libri, nei vestiti, nel legno dei mobili. Il suo naso ha memoria dell’odore dei libri pieni di umidità, dei vestiti pieni di umidità. Un leggero odore di marcio. Molti libri, quando sono entrati nell’appartamento, erano già carichi di umidità: lui ha sempre comperato soprattutto libri usati, non libri antichi, libri usati presi sulle bancarelle, ai mercatini, malmessi, tirati fuori dalle cantine o – appunto – da appartamenti rimasti a lungo disabitati. Ho sempre comperato i libri dei morti, pensa, buona parte dei libri che possiedo sono appartenuti a persone che, quando io ho cominciato a possederli, erano morte. Anche i vestiti che ho addosso, forse, sono appartenuti a persone che oggi sono morte. Questa giacca picchiettata di verde comperata al balón di Torino, questi pantaloni grigio fumo comperati a Alessandria nel negozio di quel tipo con le braccia lunghissime – gli aveva fatto vedere, lasciandole penzolare, che le mani gli arrivavano alle ginocchia –, questa camicia azzurra col colletto coreano comperata a Padova al negozio Angoli di mondo: tutta roba usata, tutta roba data via, e quand’è che si danno via i vestiti? Quando chi li usava muore. Io posso indossare questi vestiti perché non so niente delle persone che li hanno portati; non potrei usare i vestiti di mio padre, a parte la taglia che è diversa, lui era più alto e più grosso, perché sono i vestiti di mio padre. Io non sono mio padre.

giulio mozzi,racconti di giulio mozzi,la casa le cose

Ha la chiave in mano, la infila nella serratura, chissà se la serratura funziona ancora, la chiave gira, la serratura funziona, la porta si apre con una spinta minima. Dentro è buio. Entra. Con la mano destra, senza guardare, trova subito l’interruttore. La luce nell’ingresso è scarsa, è sempre stata scarsa. Appoggia la valigia a terra, appoggia lo zainetto sulla sedia che è sempre stata lì, accanto a quella specie di madia – viene dalla casa di San Daniele, in Friuli, la casa dell’infanzia di suo padre –, la sedia che serviva per telefonare – il telefono è ancora lì, sopra la madia, chissà quante volte ha suonato, mentre lui non c’era, lui che non c’è stato per un anno –, chiude la porta, si toglie la giacca e la appende all’attaccapanni a stelo – giusto qualche giorno fa ha fatto una ricerca, per un lavoro di editing, se quell’oggetto potesse essere chiamato appunto «attaccapanni a stelo», o «uomo morto», o «servo muto» – l’autore aveva scritto «servo muto», ma no, il servo muto è quell’attrezzo che sta in camera da letto, serve per appoggiarci i pantaloni senza che perdano la piega, e la camicia, e ha le rotelle. Questa casa è un servo muto, pensa, è rimasta qui, tranquilla, deserta, per un anno, in silenzio, ad aspettare di essere usata nuovamente, di essere abitata, di essere adoperata. Va in cucina, alza il rotolante, l’avvolgibile, la tapparella, apre la portafinestra, il terrazzo è pieno di sporco e di foglie, le piante sono morte. C’è un secchio in un angolo, con sul fondo cinque dita di acqua piovana, acqua sporca. Fa il giro dell’appartamento, spalanca tutto, dalle finestre del lato notte entra il sole, è caldo, entrano gli odori – le case attorno hanno tutte dei piccoli giardini, delle piante, una un vero e proprio orto –, così pensa che dopo tante domande si è dimenticato di annusare, appena entrato, di ascoltare l’odore dell’appartamento; ma è fatta, ormai, l’appartamento è già pieno degli odori di fuori, nelle stanze del lato notte anche dell’odore di sole, nella luce vede agitarsi il pulviscolo, ho già smossa tutta la polvere, pensa, o forse non ha mai smesso di agitarsi nell’aria, durante tutto quest’anno.

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Nei due bagni c’è un po’ di odore di fogna, spalanca le finestre e tira l’acqua, guarda stupito l’acqua vorticare nella tazza del bagno grande, prima, e in quella del bagno piccolo, subito dopo, anche l’acqua ha aspettato, è stata lì ferma ad aspettare, nelle due cassette. Rifà il giro dell’appartamento. Nella stanza che è stata per anni la sua stanza – ma una stanza solo per dormirci, benché sia grande –, e poi è diventata la stanza per asciugare, ci sono ancora i due stendini, con qualche maglietta e qualche calzino e qualche mutanda appesi, bisognerà rilavare tutto, pensa, per un anno sono stati lì. Nell’acquaio della cucina c’è un bicchiere, il fondo è biancastro come se fosse stato lasciato lì pieno d’acqua, e l’acqua fosse evaporata. Sul tavolo della cucina c’è un posacenere di ceramica con due mozziconi di sigaretta. In sala c’è il tavolo, il tavolo sul quale per anni hanno mangiato, finché erano in tanti, prima che si riducessero a mangiare in cucina, col suo tappetino al centro – portato da suo padre al ritorno dalla Somalia, dunque nel 1974, e sul tappetino l’orribile oggetto d’argento, una specie di vasca, che non piaceva a nessuno, ma che sempre è stato lì. Tutto è stato lì. Stato lì. Lui è stato altrove, in un’altra casa, in un’altra parte d’Italia, ma le cose sono state buone, non si sono mosse, non si sono ribellate, hanno aspettato lui. Chissà se lo pensavano. Chissà in che modo pensano le cose. Ma lui, lui, alle cose, alle cose dell’appartamento, ci ha mai pensato? Sopra il lavandino della cucina, sull’asciugatoio, ci sono ancora dei piatti, delle tazze, delle tazzine, la macchinetta del caffè. Vorrebbe farsi un caffè. Nello sportello alla destra dell’asciugatoio c’è il barattolo del caffè, sarà buono un caffè che per un anno è rimasto lì? C’è anche un pacchetto chiuso; controlla, non è scaduto. Apre lo sportello sotto all’acquaio, per svuotare nel secchio il barattolo del caffè, ma nel secchio non c’è il sacchetto di plastica. Apre il cassetto, il secondo dall’altro, sotto ai fuochi, prende il rotolo dei sacchetti rosa, quelli per il misto, per un anno è stato lì, pensa, il rotolo, ad aspettare, e l’ho ritrovato esattamente dove lo avevo lasciato, e la mia mano sapeva dov’era, non ho dovuto pensarci, qui tutto è dove deve essere, dove è sempre stato, il mio corpo riconosce lo spazio, le distanze, i posti delle cose. Srotola un sacchetto, lo strappa. Il sacchetto si lacera. Ne srotola un altro, lo tira con più dolcezza, anche quello si strappa. Il terzo lo stacca con cura, come se fosse una cosa delicata, e finalmente riesce a mantenerlo integro, ad aprirlo, a sistemarlo nel secchio. La plastica non ha resistito, pensa, ha cercato di resistere ma non ce l’ha fatta. Prende le forbici dall’angolo del piano a sinistra dei fuochi, apre il pacchetto, lo svuota nel barattolo – prima di buttarlo controlla: no, non è scaduto –, riempie d’acqua la base della macchinetta del caffè, riempie di caffè il filtro, mette la macchinetta sul fuoco. Il fuoco non si accende. Apre di nuovo lo sportello sotto l’acquaio, trova subito il rubinetto giallo del gas, lo apre. Riprova ad accendere il fuoco, si accende quasi subito. Mentre il caffè è sul fuoco dà una sciacquata a una tazza, una tazza mug, poi ci ripensa, la lava col detersivo e la spugnetta, il detersivo e la spugnetta sono dove devono essere, anche loro sono stati lì per tutto l’anno, in attesa. Sciacqua la tazza. Il caffè esce. Si siede, appoggia la tazza sul tavolo. Sono stato altrove tutto questo tempo e non è cambiato niente. Sono stato altrove per un anno, senza tutte le mie cose, e sono sopravvissuto, sono vissuto senza le mie cose, e ora che sono tornato le mie cose sono ancora qui, mi hanno accolto, sono al mio servizio, sono serve mute.

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