Fino a non moltissimo tempo fa erano percepibili due modi opposti di guardare allo sviluppo delle città: da una parte gli entusiasti della crescita, che individuavano in ogni mattone aggiunto, in ogni nuovo pilastro di cemento, in ogni metro di asfalto steso un’opportunità di ricchezza e il segno di un’inebriante modernità a venire, e dall’altra i critici, i dubbiosi, gli ambientalisti, propensi a leggere nell’espansione materiale i processi di violenta disgregazione sociale, di produzione delle disuguaglianze, di distruzione ambientale, e a imbrigliare la trasformazione in sistemi di regole finalizzati a ostacolare la rendita e l’accumulazione e favorire la redistribuzione e la giustizia spaziale. 

Naturalmente era molto più complesso di così, tra i due poli proliferavano infinite sfumature e mediazioni, e la lunga stagione del pensiero postmoderno ha sciolto, invertito e mischiato paradigmi, ma la tensione tra i due campi di interesse era evidente e le posizioni manifestate senza timore. Ligresti e Berlusconi inneggiavano serenamente alla speculazione, deridendo gli scrupoli ecologici e le istanze di classe degli avversari, i quali da parte loro argomentavano le proprie critiche con forza e chiarezza. 

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