Il primo Joker (2019) era un film che diceva tante cose, e le diceva in modo abbastanza chiaro. Era una parabola sui media, le masse del nuovo millennio e i loro eroi. Una riflessione sulla “condanna al tragico” (lo scrive Gianni Canova nella nuova edizione di L’alieno e il pipistrello) in un mondo cui è negata la liberazione della comicità. Una pietra tombale della cinefilia citazionista postmoderna, dato che si trattava del mash-up di Taxi Driver e Re per una notte di Martin Scorsese e di molte altre cose (Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, per esempio), la cui conoscenza pregressa era ininfluente per l’apprezzamento e la decodifica del film. Era anche un film inaspettato, un trionfo globale (oltre un miliardo di dollari di incassi, due Oscar e perfino il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia) e un’opera rilevante sfornata da un regista che in precedenza aveva firmato solo simpatiche cazzate come la serie Una notte da leoni (anche se non dubito ci sia chi ha tracciato un fil rouge dal suo documentario d’esordio su G.G. Allin – un rocker che faceva entertainment in modo molto particolare, e di cui risparmio i dettagli agli ignari lettori – a Joker). Il che è anche emblematico degli slittamenti della figura dell’Autore nel sistema culturale e mediatico contemporaneo.
Joker: Folie à deux sconta la classica maledizione del secondo film (in questo caso d’autore), che è molto più difficile da realizzare del primo. È inutile in questa sede soffermarsi sulle sue numerose incertezze e indecisioni, sulle esche e piste buttate lì e non sviluppate pienamente – a partire dalla patologia enunciata dal titolo, che quasi acquista più senso se riferita allo sdoppiamento del protagonista Arthur Fleck/Joker che al suo rapporto con la fan-emula-innamorata-manipolatrice Lee Quinzel (Lady Gaga), che sino alla fine si è portati a credere sia solo una sua proiezione mentale (e forse non l’hanno stabilito nemmeno Phillips e il suo cosceneggiatore Scott Silver).
Ma il film è interessante per più di un motivo, a cominciare dal suo selling point: “Questa volta è un musical! E c’è Lady Gaga che canta!”. Da un lato Phillips si inserisce, lo sappia o no, in un filone di neomusical autoriale da festival
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