L’incontro e il congedo sono per tradizione sigillati dal rito del saluto. L’avvicinamento e l’allontanamento da qualcuno hanno bisogno di essere riconosciuti e dichiarati per avere una certa validità, una consacrazione che fa dire: “Sì, è arrivato il momento”. Salutarsi ha a che fare col vedersi e smettere di vedersi, e anche col riconoscersi: è il modo più efficace e sintetico che abbiamo escogitato per confermare all’altro che incontriamo che esiste, che ci ricordiamo di lui, che sappiamo collocarlo dentro un contesto di cui anche noi facciamo parte.
Navigando in internet per alcune ricerche, qualche tempo fa mi sono imbattuta nel sito del MoMa e, in particolare, nella serie di immagini della mostra dedicata al monumentale lavoro di Nan Goldin (1953, Washington, Usa), The Ballad of Sexual Dependency. E lì ho trovato l’immagine da cui far partire questo articolo.
The Parents’ Wedding Photo, Swampscott, Mass. 1985 fa appunto parte del gigantesco lavoro che la fotografa statunitense realizzò tra gli anni Settanta e Ottanta, e oltre, documentando in più di settecento immagini la sua personale epopea di sesso, droga e violenza per cui ancora oggi ne ricordiamo le immagini. All’interno di questo gigantesco flusso diaristico è presente, quasi come messaggio subliminale, una fotografia che ritrae un’altra fotografia appoggiata su un mobile, contornata da carta da parati gialla a fiori. Ѐ una fotografia di matrimonio, di genitori (parents), ma non sappiamo decifrare bene di chi. Un’immagine che diventa un’incursione improvvisa nella dimensione di Nan Goldin, che ci appare come un mondo ormai lontanissimo dalla realtà suggerita con l’immagine dei due genitori abbracciati e vestiti perfettamente posizionata in un angolo domestico qualsiasi. Un unico indizio dell’ordine originario basta a creare un’interruzione netta nel filone discorsivo della Ballad di Nan Goldin.

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