Sono quasi tre mesi che cerco di leggere Ferite magiche di Dorota Masłowska e vorrei scriverne, anche, solo che non riesco nemmeno a finirlo. Eppure Masłowska mi piace, e poi è una scrittrice importante, lo è sempre stata, fin da quando a diciannove anni aveva debuttato con Guerra russo-polacca sotto bandiera bianco rossa, un libro strepitoso che (insieme a Lubiewo di Michał Witkowski, uscito due anni dopo) aveva scompigliato la narrativa polacca. Ricordo bene come allora dentro quelle pagine la Polonia mi sembrasse correre nel ventimillesimo secolo, poi invece bastava alzare gli occhi o ascoltare certa gente e il paesaggio umano si faceva forse più grigio del cielo. 

Masłowska è una scrittrice capace di aprire la stanza di barbablù, sa fare pulizia della provincialità, è brava, intelligente, sveglia, eppure di questo ultimo suo volume, boh, non so che dire, non riesco nemmeno a finirlo. Un po’ come un bel pane, che sì, me ne taglio una fetta, per fiducia mangio pure la seconda, ma poi non mi convince e mi rimane sul tavolo, finché dopo qualche giorno lo metto via, ma alla fine aspetto che secchi per darlo ai cani, che lo mangino loro così non lo vedo più. Certo i libri non seccano, e infatti sta lì sulla scrivania e mi guarda e mi interroga e mi chiede “E insomma? Perché non mi leggi?”.

E io che gli dico, perché non lo leggo? 

C’è un artificio che non mi seduce, vedo le dita che osservano e disegnano le piccolezze dei personaggi, fanno far loro azioni che dovrebbero essere rilevanti e che lo sono, certo, che poi è quello che dovrebbe fare ogni narrativa, ma c’è una maniera che mi irrita, se fosse una cena mi alzerei e me ne andrei. O forse no, perché non è un gesto da me, però di sicuro il giorno dopo mi lamenterei al telefono. E infatti proprio parlandone con un’amica al telefono mi sono ritrovata a dire che era una scrittura senza cuore. Stavo anche cucinando e ho avuto paura di bruciare tutto per l’idiozia di quella mia deduzione. 

Valérie Perrin è tutta fatta di un cuore che è però un gomitolo di inchiostro, e scrivere è evidentemente per lei la necessità di srotolarlo

O forse no. Forse non è del tutto idiota chiedere che un autore si sprema il cuore in quello che scrive, che insomma mi racconti pure quello che vuole, ma io affido il mio tempo a chi quel cuore ce lo mette e con “cuore” intendo mettersi in gioco, condividere una parte di sé, rischiare. 

Voglio che sia un regalo, e infatti quando un libro funziona è quasi sempre perché mi sembra che chi lo ha scritto lo abbia scritto per me. Cioè proprio perché voleva esattamente a me non solo dire qualcosa, ma rispondere alle domande che mi facevo. Il che ovviamente è un artificio emotivo, ma insomma succede. A me succede. 

A complicare il tutto ho cominciato a discutere non solo con quel libro, ma con i molti, troppi, libri che mi vivono intorno e mi guardano e mi giudicano. Non tanto con i libri non letti, loro sono clementi e aspettano, no, con quelli cominciati e non finiti, che invecchiando non fanno che aumentare. E non è una libertà, macché, un libro non finito si incista incattivito e mi scava senso di colpa. E che dire, è successo che li ho divisi tra quelli scritti da figli unici e quelli scritti dalle mamme. Da una parte i figli unici che scrivono come da sotto una doccia di affetto tutta per loro e si insaponano e se la cantano, e io lettrice sto lì, seduta un po’ sul water e li leggo, certo, ma alla fine perché, dato che non stanno esattamente parlando a me? E allora apro, ascolto, ma mi sento una guardona e spesso non li finisco.

E poi ci sono le mamme che invece scrivono col grembiule, e mi aspettano per ingrassarmi di affetto, perché mi vogliono sazia, pasciuta. Niente altro vogliono che sfamarmi, sante le mamme, che trovano quello che io cerco e sono fatte di un pane che non secca mai, anzi, ogni volta che le riprendo in mano la mollica è morbida e profuma. 

E poi nulla, tra cena, cuori, affetti e padelle il tutto mi è sembrato un nodo di tale inestricabile idiozia, che quando penso queste cose vedo l’ingegnere Gadda al tavolino che tamburella le dita sul legno e mi guarda malissimo e, prima che se ne esca con una delle sue frasi da betoniera, annuisco e sì, meglio pulire il frigorifero, vado. Corro.

Fatto è che mi sono letta Tatà di Valérie Perrin, un tomo di quasi seicento pagine

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