Venerdì 23 settembre scorso, le piazze riempite a metà accolgono con una certa svogliatezza i comizi di chiusura dei principali partiti della campagna elettorale. A questa visione, antipasto di un astensionismo mai così marcato, col 7 % in meno di votanti rispetto al 2018, fa da contrappunto ai miei occhi la notizia di circa settantamila manifestanti, sparsi fra le varie città d’Italia (per Roma «la Repubblica» ha parlato di trentamila persone partite alle nove e trenta dalla stazione), per l’iniziativa generazionale e globale Fridays for Future. Nella mia testa ha iniziato a prendere sempre più consistenza, confusamente, una domanda su quale dei due scenari fosse più significativo sul piano politico, a un livello profondo. La risposta pare ovvia. Negli attuali scioperi per il clima si vedono nettissime: una prospettiva transnazionale (l’emergenza climatica riguarda tutti), uno sguardo sulla lunga durata (il 2030, i punti di non ritorno del pianeta fissati sempre più vicino a noi), un’attenzione non paternalistica alla generazione cui appartengo e a quella di pigri e untori, più giovane, contro cui in Italia ci si accanisce con particolare compiacimento. Sono tutti elementi che da soli basterebbero per garantire uno slancio, un’adesione, i presupposti di un modo alto di fare politica. Nell’altro scenario, dove i giochi si decidono per davvero e ci si mostra ad ascoltare chi sciopera per l’ambiente solo se non ci sono problemi veri che pressano (guerre, pandemie, emergenze energetiche, come se con l’ambiente non avessero nulla a che fare), non si trova niente di tutto questo.

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