Mi è capitato di essere sollecitata più volte nell’ultimo periodo sul tema BookTok, «in qualità di critica»: così scrivono, alla lettera, quando chiedono un’opinione su quello che all’interno del social attualmente più in voga tra gli under 30 è lo spazio dedicato ai libri (in realtà apprendo proprio da una BookToker che si tratterebbe di un’etichetta lasca, un escamotage con cui TikTok prova a sopravvivere in Europa). Ma come funziona un video di BookTok? Esempio: “Questo è il libro a cui hai dato 5 stelle, Cose che non abbiamo mai superato di Lucy Score”, “Questo è il libro che consigli sempre a chi ha il blocco del lettore, Dammi mille baci di Tillie Cole”, “Questo è il libro che hai fatto comprare a tutti quelli che conosci, Due cuori in affitto di Felicia Kingsley”. Ecc. Dura lo spazio di uno o più slogan, esprime un gradimento sintetico e formulare, rigorosamente col tu che lo Sloterdijk di alcuni anni fa definiva “motivazionale” (il singolare di chi in realtà si sta rivolgendo a un gruppo, vedi istruttore di fitness). La mia reazione alla disputa tra BookTok e critica (intesa in questo caso non come disciplina, ma come il soggetto che la esercita) è la seguente: non ho niente a che fare con BookTok, non conosco i libri di cui vi si parla, non leggo fantasy, horror, thriller, noir, rosa. La domanda successiva, a questo punto, è di solito: la critica è morta da quando ci sono i social? No, la critica resiste, per quel che riesce, la sua funzione si misura sulla lunga durata, la critica ha il compito di salvaguardare i valori e blablabla. In verità io non credo in BookTok ma forse più nemmeno nella critica, lo ammetto. Perché la critica non è la benvenuta da nessuna parte, non serve a nessuno, è molesta come Lotta comunista, il folletto o i testimoni di Geova. Se per caso citofona un critico, diciamo: «Sciò». Preferiamo leggere un supplemento culturale e trovarci una recensione che si nega come tale, a partire dall’incipit: «recensire mi è sembrato non solo un esercizio inopportuno ma anche un addomesticamento, come se imponessi a un animale sconosciuto e sicuramente infuriato di porgermi la zampa». Questo perché quello di cui parla, qui, il non-recensore, è un libro “sincero”, parole sue, che non prevede “infiorettamenti”. Definire infiorettamenti, prego: la scrittura? La mediazione letteraria?

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