La mia lettrice del cuore era una barbona che stazionava nei paraggi di Castel Sant’Angelo. Stendeva i vestiti sulle ringhiere arrugginite dei giardini per farli asciugare dal sole stanco dell’inverno. Quelle panchine erano la succursale del mio ufficio, quando non scrivevo a casa andavo a scrivere lì, perciò conoscevo tutti gli aficionados. E ogni volta che usciva un mio nuovo libro ero solito rifornire il Bibliobar – la caffetteria adiacente al Tevere – di una copia: avevano una libreria per il bookcrossing. Mi stupì vedere la barbona prendere dallo scaffale proprio Gotico rosa. Prima l’aveva tenuto con sé, facendo la spola tra il banco e il dehors, infine s’era accomodata a un tavolino e aveva cominciato a leggerlo. Era una donna corpulenta, sciupata ma non sciatta, con dei vestiti sdruciti ma non logori. A uno sguardo disattento la si sarebbe potuta scambiare per una delle tante turiste che risalivano la lunga teoria dei bouquinistes romani verso piazza Pia e San Pietro. Ma io l’avevo già vista diverse volte, sapevo della sua vita borderline e me ne commuovevo. Mi commuovevano i suoi capelli sfibrati, la sua bella sporcizia che puliva il mondo. La lasciai a malincuore quel giorno, mentre ancora mi stava leggendo. Pensavo che sarebbe stato assurdo se, alzando la testa, mi avesse riconosciuto: sul risvolto di copertina l’editore corredava la nota biografica con una foto. Il giorno dopo alla solita ora ero di nuovo al Bibliobar, e c’era anche lei. Era quasi alla fine del libro. Trattandosi di racconti non potevo sapere se avesse letto in modo lineare, furiosamente, o se avesse saltato di qua e di là. Di certo stava china sul libro con una concentrazione – una dedizione – che mi parevano ripagarmi di tutti i miei sforzi. Il mondo delle lettere è talmente avaro di soddisfazioni che a volte può bastare un lettore solo, sebbene dovessi ammettere che il mio fosse molto particolare. Fui tentato di palesarmi ma mi fermai in tempo: era un’epoca funestata dal presenzialismo degli autori, che erano arrivati perfino a compromettere la menzogna della letteratura, pur di risvegliare i peggiori istinti dei lettori. Pura pornografia biografica a scapito dell’invenzione letteraria. Mi venne in mente la scarna informazione che Francesco Biamonti faceva mettere sui suoi libri: “Io sono da cancellare. La mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante. Si fa della letteratura perché non si è contenti della propria vita. […] Non credo alle biografie”.

Mi scoprivo con le lacrime agli occhi, come uno che s’aspettasse una spinta sul bordo di un precipizio. Sì, come un condannato a morte. Me ne rimasi a distanza, guardando, ammirando la mia barbona dal viso consumato dal freddo e dalle lacrime, qualche dente saltato, qualche unghia rotta, intenta a leggermi nella più totale concentrazione, nella più esclusiva elezione. E pensai che Gotico rosa potesse essere capito soltanto da lettori al limite, le cui esistenze fossero state forgiate da esperienze radicali. Non poteva essere che così: si creava una sorta di effetto specchio tra i protagonisti in rovina del libro e le persone in rovina della vita. I lettori devono essere grandi, e solo in un secondo momento, e forse in maniera accessoria, devono esserlo anche i libri. Tornai al Bibliobar per diversi giorni di fila e la barbona continuava a tenere il mio libro con sé. L’aveva amato a tal punto da volerlo custodire? Da sottrarlo – gelosa come solo un vero lettore può diventare – agli altri avventori, a tutti gli altri sconosciuti che avrebbero potuto prenderlo per pura curiosità, magari attratti dalla Medusa del Caravaggio in copertina, sorseggiando un caffè? Proprio lei, che dell’impermanenza di ogni cosa aveva fatto, probabilmente era stata costretta a fare, uno sgangherato stile di vita? Stetti ancora per rivolgerle la parola. Non volevo un’opinione, una recensione. Avrei voluto una profondità nuova o, al limite, un’insensatezza. Rinunciavo sempre, alla fine, tornando a casa e aspettando di rivederla l’indomani. Ma una notte il vento aveva cominciato a sibilare forte, troppo forte, nella canna del camino. Provai a non preoccuparmene. Pensavo a quale altro libro perfetto avrei mai potuto mettermi a scrivere. Omettendo di proposito le domande necessarie e spaventose che seguivano: per quale ragione? Con quale profitto? Per chi? Mi precipitai a Castel Sant’Angelo di mattina presto, la temperatura era colata a picco. La gelata aveva stecchito qualche passero. Se ne stavano appiccicati all’asfalto con le ali rattrappite, il ghiaccio come una colla. Vidi la barbona distesa su una panchina di marmo, e l’immagine mi arrivò come un presagio tremendo. Non si muoveva, la sua bella sporcizia che puliva il mondo era inerte. I capelli sfibrati fermi come le ali dei passeri. Provai a scuoterla, la mia lettrice del cuore. Del mio libro non c’era più traccia.