È un periodo in cui sulla scuola si scrivono un sacco di lettere, prima la famiglia finlandese, poi la preside: c’è questo ritorno del genere epistolare scolastico, un grande successo, soprattutto tantissimi commenti, editoriali, polemiche… era dai tempi di Don Milani che le lettere a tema scolastico non suscitavano discussioni così accalorate. L’attenzione mediatica verso la scuola è una cosa che, a chi ci lavora dentro, da una parte fa molto piacere (le lettere poi sono romantiche, ti fanno sentire pensato) però dall’altra disturba un po’, perché ognuno dice la sua, e ti accorgi che l’Italia è un paese di esperti pedagoghi.
La lettera della preside fiorentina forse era polemica di suo, se non altro negli intenti, quindi un po’ di clamore c’era da aspettarselo: suonare un campanello d’allarme, invitando a considerare il pestaggio avvenuto fuori dalla scuola come un’avvisaglia, un possibile prodromo di un ritorno non tanto degli Anni di piombo e degli scontri violenti tra opposti estremismi, ma proprio del fascismo.
La lettera è stata la reazione magniloquente di una preside ai disordini capitati davanti alla sua scuola, una cosa che capisco anche bene, solo che ha scatenato un sacco di altre reazioni magniloquenti, da entrambe le parti: da un lato le squadracce, l’indifferenza, i principi della Costituzione, e dall’altro il deferimento alla corte marziale, i provvedimenti disciplinari prima minacciati e poi ritrattati. Forse questa mia percezione è dipesa semplicemente dal posto dove vivo e dove lavoro. Io non abito a Firenze, non so niente di cosa possa succedere dentro e intorno a un liceo, quanto i liceali si appassionino e partecipino alla vita politica di una città come Firenze.
In classe, faccio storia per come e per quel tanto che riesco a farla, una gran fatica, un sacco di tentativi, più che altro fallimenti
Insegno alle medie, ragazzini nell’età di mezzo tra infanzia e adolescenza. La mia scuola si trova in una frazione di una piccola città siciliana; se in classe provi a chiedere come si chiama il presidente della Repubblica qualcuno ti dice Salvini, qualcun altro Berlusconi, i più ti rispondono cose come Ciccio Gamer o Niko Pandetta e poi tutti scoppiano a ridere.
In classe, faccio storia per come e per quel tanto che riesco a farla, una gran fatica, un sacco di tentativi, più che altro fallimenti, successi pochissimi e solo parziali.
Tra me e i ragazzini c’è un divario biologico, prima ancora che anagrafico, nel mio cervello i contenitori dello spazio e del tempo sono alti e spessi, troppo anche, diciamo che con l’età il materiale di cui sono fatti tende a sclerotizzarsi, si irrigidiscono, sono contenitori voraci come piante carnivore, ansiosi di catalogare tutto e tutti, ogni minuto che passa, ogni fesseria che succede. Nel cervello dei ragazzi invece questi contenitori non si sono ancora formati, hanno pareti bassissime, vige il principio dello sbrodolamento totale dei vasi comunicanti, regna lo stesso caos che regna nelle loro camerette, ci sono pochissimi scomparti o nessuno, e i ragazzini non hanno ancora nessun interesse a riempirli con qualcosa.
Per un dodicenne il tempo è più che altro quello atmosferico, piove oppure c’è il sole
Passato, presente e futuro sono per me, quasi cinquantenne, prima di tutto un’euristica: servono a orientarmi, a mettere in ordine le cose, a tentare di trovare fili che colleghino premesse a conseguenze, cause a effetti, in pratica mi aiutano a sopravvivere. I dodicenni di sopravvivere se ne fregano, vivono e basta, faticano a distinguere discrimini temporali che per noi sono banalissimi, per esempio la differenza tra la settimana scorsa e la settimana prossima (non è raro che usino un’espressione al posto dell’altra, mandandomi in confusione). Per un dodicenne il tempo è più che altro quello atmosferico, piove oppure c’è il sole, da una parte è una maledizione, perché storia è una disciplina che è obbligato a studiare, dall’altra una benedizione perché in un certo senso la sua mente è ancora molto duttile e fa esperienza delle cose in modo molto più libero e molto meno schematico rispetto a un adulto.
Poi ci si mette pure la tecnologia. Io per esempio strabuzzo gli occhi inorridito ogni volta che i ragazzi mi dicono che c’è la foto. Per i miei studenti esistono foto di tutti e di tutto, ti indicano un affresco degli Scrovegni sul libro e ti dicono che ci sono le foto di Sant’Anna e di Gioacchino, la foto della Beatrice di Dante, la foto di Giovanna d’Arco, per loro ci sono foto di chiunque, quale che sia l’epoca, foto di Hammurabi, foto perfino di Urano, padre del cielo e degli dei, foto del vello d’oro, di Patroclo, di Polifemo, di Martin Lutero, il libro è tutta una fotogallery, ma come può essere? Che confusione, penso ogni volta: ragazzi quelle non sono foto, semmai sono immagini, rappresentazioni, disegni, quadri, ritratti, affreschi, illustrazioni, e la maggior parte delle volte, provo a spiegare loro, non sono nemmeno antiche, sono state fatte apposta per il nostro libro, magari appena un anno fa. Niente, tempo perso: prof c’è la foto di Hanubi, era metà uomo e metà lupo, prof c’è anche la foto dell’australopiteco, somiglia un po’ a Hanubi, sì ma non è una foto, è un’illustrazione, gli dico, vabbe’ prof, guardi, c’è la foto di Odoacre che depone Romolo Augusto.
I mille tentativi settimanali che faccio di eliminare in loro la convinzione che le foto siano sempre esistite consumano le mie giornate e il mio sistema nervoso, e soprattutto mi precipitano ogni pomeriggio in pensieri di cupo radicalismo didattico.
Per me, penso ogni giorno dopo la campanella delle due e un quarto, mentre accendo la macchina per tornarmene a casa, insegnare storia è proprio la cosa più difficile di tutte, un’impresa, e ogni tanto tiro fuori la testa dal finestrino e urlo alla macchina che mi precede in coda: MA HA DAVVERO UN SENSO INSEGNARE STORIA ALLE MEDIE? Oh ma che ti suoni, mi risponde l’automobilista, cosa cavolo ti urli? Poi tira il freno a mano, scende minaccioso dalla macchina, mi si avvicina a grandi passi, infila la testa dentro al mio finestrino: Salinitro, gli dico io, sei tu? Ah è lei prof, mi era sembrato di riconoscere la voce, stessi urlacci di quando mi interrogava in storia. Salinitro, più che sufficiente, dai, a essere generosi, la testa ce l’avevi, nelle altre materie eri bravino, però in storia zoppicavi parecchio. Storia è la materia più difficile che io abbia mai studiato in vita mia, mi dice lui, comporta uno sforzo notevole di tutte le facoltà intellettive, bisogna capire un mare di cose e bisogna stringerle tutte insieme. Ah, gli dico io, è vero, hai ragione, ma lo vedi come sei maturato? Quindi tu poi hai proseguito gli studi, ti sei appassionato alle materie umanistiche! Ma quando mai, mi dice lui, faccio il rappresentante farmaceutico, sono sempre in giro con la macchina, quelli che mi urlano cose dal finestrino mi fanno salire il nervoso, ma cosa urlate, che qua c’è gente che lavora. Che senso civico che sono riuscito a inculcargli, penso, devo controllare quanto gli avevo dato in cittadinanza attiva, che bel lavoro che ho fatto con lui. Giusto Salinitro, gli dico poi, scusami per avere urlato. Va bene prof, mi dice lui, lei però si deve calmare, in macchina siete sempre tutti agitati, e se ne va. Va bene, in effetti, sono le ubbie di un insegnante, alla fine c’è un libro di testo, ci si aiuta con quello, la copia di mille riassunti, però sempre meglio di niente, no?
Ecco, allora stando proprio al sussidiario che mi tocca rileggere praticamente ogni anno, la lettera della preside, la vicenda di Firenze, le reazioni scomposte e magniloquenti come le devo affrontare? Fammi aprire questo libro di testo fatto apposta per le medie, vediamo se funziona come l’Iching. È stata un’aggressione squadrista? chiedo al libro. Uhm no, per niente, mi dice il libro. Le squadracce, quando picchiavano, erano molto organizzate, ci mettevano settimane a pianificare un attentato, peggio della mafia in quanto a scrupolosità, non erano scazzottate estemporanee o risse da marciapiede, era una cosa studiata nei dettagli, anzi per la verità le squadracce più che per picchiare andavano proprio per ammazzare: hanno fatto qualche centinaio di morti, negli anni, erano spesso armate molto bene, in parecchi casi le loro erano vere e proprie esecuzioni. C’è anche un’altra differenza, dice l’Iching: le squadracce spesso erano protette dalle forze dell’ordine, agivano indisturbate, non le perseguivano né prima, né durante, né dopo, i prefetti a volte lasciavano solo fare, altre erano veri e propri complici.
Se dico ai ragazzini che il fascismo è una cosa orribile, la più nefasta e liberticida e omicida delle ideologie politiche, come faccio poi ad accostarlo a una scazzottata?
È successo questo a Firenze? Da quello che sembra no, per fortuna, c’è stato un pestaggio estemporaneo, una baruffa, gravissima, si intende, specie perché successa fuori da una scuola, ma non sembra si sia trattato di squadrismo. Meno male, penso io, i tempi sono già abbastanza bui pure senza le squadracce, evitiamoci le angosce che ci possiamo evitare. Io, per esempio, ho l’angoscia delle foto: ci sarà la foto del fascismo sul libro? Quando in classe studiamo il fascismo che devo dire? Per essere più esplicito: veramente devo “attualizzare” il fascismo, come in questi giorni la mia bolla social (aizzata da una lettera pacatissima nei toni ma quanto mai ieratica nei contenuti) mi chiede di fare, paragonandolo a una vicenda come quella di Firenze? E ammesso che questo confronto sia possibile e sensato, e ammesso anche che abbia un valore civico, didatticamente sarebbe un paragone corretto?
Se dico ai ragazzini che il fascismo è una cosa orribile, la più nefasta e liberticida e omicida delle ideologie politiche, come faccio poi ad accostarlo a una scazzottata? Non otterrei l’effetto opposto? Non finirei per ridurre un fenomeno politico e ideologico che ha sconquassato il mondo con la sua violenza a una rissa da strada?
L’altra cosa della lettera fiorentina che sembra avere riscosso l’unanime consenso di editorialisti e commentatori vari è il concetto, che vi viene espresso, di indifferenza come innesco primigenio del fascismo. Mi torna l’angoscia, devo di nuovo consultare l’Iching. Meno male che il semaforo è rosso e ho due minuti di tempo. È un libro pessimo, non mi è mai piaciuto, in un solo paragrafo sintetizza secoli di avvenimenti, per forza che poi i ragazzi hanno problemi a sviluppare le categorie kantiane di spazio e tempo, e adesso mi è ancora più odioso perché disorienta anche me. Secondo il mio manuale le cose non sono andate per niente così, non è stata l’indifferenza a propagare il fascismo in Italia prima e in Europa poi. Sono così agitato che mi parte un colpo di clacson e Salinitro scende di nuovo dalla macchina, questa volta con il cric in mano. Senti, gli dico io quando si fa sotto, ma secondo te cosa cavolo è “l’indifferenza”? Va bene che la storia studia davvero tutto lo scibile umano, gli dico, però grazie a Dio la fenomenologia di concetti come quello di indifferenza ne rimane fuori, non trovi? Salinitro abbassa il cric in segno di pace e mi dice: i libri di testo, almeno quelli delle medie, perché io mi sono fermato là, ci dicono che il fascismo si propagò per una serie di cause, a loro volta innescate da eventi, tutti concomitanti, che in quel periodo concorsero al suo successo: i reduci, il nazionalismo, il revanscismo, la crisi economica, la rivoluzione bolscevica, gli scioperi, una guerra mondiale appena finita, insomma un garbuglio complicatissimo, l’indifferenza era l’ultimo dei problemi italiani in quel periodo, anzi magari fossimo stati un po’ più indifferenti, il paese era in ebollizione totale, eravamo un paese strapieno di gente che non vedeva l’ora di menare le mani, da entrambe le parti, i fascisti coi manganelli e i moschetti, protetti dalle forze dell’ordine e dai prefetti, i comunisti col forcone e la falce andavano a prendere i signorotti di campagna per costringerli a spietrare il terreno che fino al giorno prima era toccato spietrare a loro, e allora quelli chiamavano i fascisti in soccorso, e quelli arrivavano col camion delle squadracce e facevano i raid punitivi, e partiva una faida, eravamo in una pentola a pressione, indifferenti un cavolo, ti dovevi schierare, e pure subito: a tavola i borghesi discutevano di queste cose, le famiglie si accapigliavano, eravamo sull’orlo di una guerra civile, che poi puntualmente s’è consumata nel dopoguerra, è stata solo rinviata, e infatti poi è durata in varie forme almeno fino agli anni Ottanta.
Arendt parlava della Germania, dei nazisti, di un alto gerarca sotto processo, l’indifferenza è una cosa diversa, italiani e tedeschi all’epoca non erano indifferenti, erano esaltati
Salinitro tu però ti devi calmare, gli dico nel tentativo di evitare almeno il mio, di pestaggio, dammi quel cric che te lo sequestro, e torna a posto, vai, più che sufficiente. Ripartiamo ognuno con la sua macchina e io rimugino tra me il sospetto tremendo che questa indifferenza attorno alla quale si costruisce tutto l’effetto retorico della lettera sia un mischione tra il famoso «odio gli indifferenti» di Gramsci e un’interpretazione completamente sballata del concetto di banalità del male proposto dalla Arendt. Salinitro mi affianca, tira giù il finestrino: Arendt non c’entra niente, mi dice, Arendt diceva tutta un’altra cosa, l’indifferenza e la banalità del male sono cose completamente diverse, se a un indifferente gli chiedi di accendere un forno crematorio quello ti dice fai pure, basta che non mi affumichi il giardino, l’indifferente è un ignavo, se a uno affetto da banalità del male gli dici di accendere un forno crematorio quello lo fa subito, anche con una certa solerzia, si mette a raccattare le fascine, fa il suo lavoro, codificato dalla legge, e per lui legge = giustizia, esegue e ci crede, e poi Arendt parlava della Germania, dei nazisti, di un alto gerarca sotto processo, l’indifferenza è una cosa diversa, italiani e tedeschi all’epoca non erano indifferenti, erano esaltati.
Sono stato ingeneroso con Salinitro, visto come maneggiava bene le fonti? Altro che più che sufficiente, questo è almeno un distinto, alzo il pollice in segno di approvazione, ma lui pensa che sia rimasto in panne e torna a chiedermi se mi serve un passaggio. No, gli dico, grazie, tutto a posto, io però che devo dire in classe?, gli chiedo, che il fascismo, anzi no, i pestaggi e lo squadrismo insorgono a causa dell’indifferenza? Boh, mi fa lui, se è così in classe non le serve il manuale di storia, le servono prescrizioni mediche di psicofarmaci contro l’apatia.
L’indifferenza comunque in questo periodo viene tirata in ballo di continuo, sotto vari camuffamenti: pure dopo l’arresto di Messina Denaro ci sono stati un sacco di inviati che andavano in giro per i paesini del trapanese a intervistare semplici passanti o residenti di quel quartiere o di quel palazzo per chiedergli: ma quindi voi avete notato questa persona e non avete detto niente a nessuno, vi siete fatti i fatti vostri, siete rimasti indifferenti? Gli italiani indifferenti ai pestaggi dei fascisti e omertosi di fronte ai grandi latitanti di mafia: ma questo dell’indifferenza non sarà un modo per alleviare le responsabilità di chi davvero poteva fare qualcosa e invece non ha fatto niente? Voglio dire: il fascismo è esploso perché la gente era indifferente ai pestaggi o è insorto perché i grandi proprietari terrieri e gli industriali foraggiavano le squadracce? È stata colpa degli indifferenti o dei prefetti che lasciavano fare e proteggevano? Degli indifferenti o di Giolitti? E il mancato arresto di Messina Denaro è dovuto a quelli che facevano la chemio con lui o alle protezioni di cui ha goduto tra forze dell’ordine, magistrati, amministratori, politici di vario rango? Se è colpa degli indifferenti non significa che è un po’ colpa di tutti e quindi non è colpa di nessuno?
Quando ho fatto il concorso a cattedra non mi hanno detto che dovevo prepararmi su come trasmettere comportamenti virtuosi ed esempi di rettitudine
In effetti, penso, in Italia funziona un po’ così, non si ripartiscono i profitti, non si ridistribuiscono i redditi tramite le tasse, però si spalmano le colpe su tutti quanti, e alla fine si chiama in causa la scuola, perché è la scuola che deve formare cittadini retti, incolpevoli, puri. In pratica finisce che non gli devo insegnare a trovare la proposizione principale in mezzo a dodici subordinate, ma gli devo insegnare qual è la cosa giusta nella vita, insegnargli a sedersi dalla parte della ragione e non da quella del torto. Insegnargli la via, la verità e la vita. È una cosa che tutti i mass media e tutti gli amici e i conoscenti ricordano a noi insegnanti (soprattutto agli insegnanti di lettere, anzi direi quasi esclusivamente a quelli di lettere) di continuo, ogni volta che in Italia succede qualcosa di orribile: subito, appena ci incontrano, per strada o sui social, ci fanno un predicozzo sul fatto che la scuola dovrebbe insegnare a non fare questo e a fare invece quest’altro. Di colpo, non siamo più solo correttori di verifiche e distributori di voti (preferibilmente medio alti, il voto del tema si può sempre alzare, quello del compito di matematica no) ma diventiamo pedagoghi, precettori, educatori, maestri di vita e di virtù. E questo mentre tutte le circolari ministeriali, le linee guida per la didattica, i corsi di aggiornamento, tentano in tutti i modi di evitare il verbo “insegnare” e la parola “insegnante”, e a dirci che non dobbiamo insegnare proprio nulla, anzi dobbiamo flippare la classroom, e al massimo dobbiamo fare da facilitatori tra i ragazzi e “il sapere”. È una cosa che può condurre i docenti alla schizofrenia. Ma come funziona qua, scusate? Quando devo parlare di qualcosa che so, tipo il congiuntivo imperfetto nelle ipotetiche del secondo tipo, non devo insegnare e devo facilitare, e quando invece devo parlare di cose delle quali io stesso non ho la minima idea, per esempio l’indifferenza, devo insegnare?
Insomma io in classe che devo fare con questi ragazzini dal cervello non ancora totalmente formato? Insegnargli a non essere indifferente? A parte il fatto che sarebbe difficilissimo per tutti (“Prof, guardi, c’è la foto dell’indifferenza!”), io, personalmente, non credo proprio che ne sarei capace: quando ho fatto il concorso a cattedra non mi hanno detto che dovevo prepararmi su come trasmettere comportamenti virtuosi ed esempi di rettitudine. Preferirei, in effetti, subappaltare questa parte del mio lavoro a qualcun altro, non so, facciamo venire una volta a settimana o al mese Stefano Massini a scuola, gli affidiamo i ragazzi per quelle sei ore, e lui poi ce li restituisce perfettamente mondati da qualsiasi idea sbagliata, imbevuti di giusto e di vero, così io poi posso spiegargli in santa pace il complemento predicativo dell’oggetto. Non è tanto (o quantomeno non è solo) per ignavia che lo dico, non è che voglio evitarmi la parte più difficile del mio lavoro e fare come quegli impiegati scortesi che dopo tre ore di fila ti rispondono: no mi dispiace, di questo se ne occupa il mio collega. È che proprio secondo me è un altro mestiere, che non è il nostro: se volessi sapere cosa pensare o come orientare il mio pensiero rispetto alla vicenda di Firenze, per esempio, io non andrei mai da un mio collega (meno che mai da quelli di lettere, hanno sempre l’aria di sentirsi i più colti e invece poi sono quelli che ti rispondono: senti, lasciami stare che devo correggere un pacco di verifiche). Chiederei a un giornalista di raccontarmi i fatti, a un giudice di spiegarmi se c’era reato e di che tipo, a un costituzionalista di decidere se c’è stato pericolo per la democrazia, a un poliziotto per sapere se erano armati, se c’era premeditazione, se facevano parte di un’associazione che ha per scopo la sovversione dell’ordine costituito ecc. Acquisire un’opinione informata mi porterebbe via qualche settimana, e quand’anche poi ne avessi maturata una degna di essere portata in classe, i fatti sarebbero già invecchiati (la cronaca e soprattutto la polemica sono bestie che vengono nutrite quotidianamente) e per i miei studenti a quel punto tra la lettera di Grisostomo e quella della preside di Firenze non ci sarebbe nessuna differenza: tutto nel contenitore del passato.
Il manuale Iching su queste cose non serve, non aiuta, non può aiutare. Qua bisogna aprire il libro che Claudio Giunta un paio di anni fa ha scritto proprio su questo argomento (“Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?”, Rizzoli, 2021). Io ce l’ho, mi urla Salinitro, l’ho letto tre volte, per questo non mi metto a strombazzare il clacson alla gente, se lo compri pure lei. Va bene, gli dico io, grazie. Grazie un corno, mi dice lui, studi prima di entrare in classe, prof! Lasci perdere le polemiche sui presidi. Che gli vuoi dire?