Dopo i contributi di Walter Siti, Francesco Pacifico, Filippo D’Angelo, Marco Rossari, Silvia Pareschi e Luca Ricci, continua la serie di pezzi sull’arte della scrittura pubblicati grazie alla collaborazione di Snaporaz con la scuola Belleville.

Me ne sono accorta qualche anno fa, quando alla presentazione di un mio libro un signore ha alzato la mano. “Possiamo picchiarlo?”. Sono caduta dalle nuvole – chi voleva picchiare, quel signore di Torino, così gentile da alzare la mano per intervenire, come a scuola? È saltato fuori che aveva letto il libro con il suo club di lettura e, all’incontro in cui ne avevano discusso insieme, si era parlato soprattutto della vigliaccheria di quel fidanzato che non solo mi aveva lasciata, ma addirittura tradita con la mia amica, senza peritarsi di nascondere gli indizi. E ora che ero lì davanti a lui in carne e ossa, quel signore tanto gentile pretendeva di sapere il nome e il cognome del fedifrago, per potergli dare una bella lezione. 

Provai a spiegare che la storia l’avevo inventata mescolando frammenti di vita vissuta a una trama di fantasia; vidi che nessuno mi credeva. Il signore, sempre cortese, era solo deluso di dover deporre le sue bellicose profferte. Gli altri, mi parve, avevano perso interesse, come se li avessi ingannati.

Avvisaglie ne avevo già avute dai tempi del mio primo romanzo, anche se avevo fatto di tutto per ignorarle. Mi ero dovuta inventare, allora, una maniera per allentare l’inflessibile vigilanza censoria che mi costringeva a cancellare qualsiasi paragrafo scrivessi, come un’esasperata Penelope preda del disprezzo di sé. L’impulso all’invenzione, che mi ero applicata a soffocare con severo perfezionismo fin dall’adolescenza, era tornato a manifestarsi con l’esasperante insistenza di un sintomo nevrotico; così che per concedermi di scrivere, o quantomeno di provarci, pensai bene di inventarmi una voce lontana da me, che potesse farmi da maschera e da cassa di risonanza, stornare lo sguardo che mi giudicava con disprezzo: il mio sguardo di dottoranda diligente. Protetta da quel travestimento, pensavo, avrei potuto tentare di dar forma a un’esperienza del vivere che non sarebbe stata la mia, anche se si sarebbe nutrita dei miei pensieri, desideri, proiezioni e parole. Soprattutto, le parole: mi interessava intesserle in un discorso che potesse azzardarsi a dire qualcosa di vero dentro una cornice di finzione, sfuggendo alle maglie dell’esattezza accademica dentro cui iniziavo a sentirmi languire. Così mi costruii una sorta di alter ego fastidioso, una narratrice urticante. Le affidai un’esperienza inventata, impastando briciole delle mie esperienze con paure, riflessioni, osservazioni, caratteristiche che arrivavano da un altrove indefinito: da persone che avevo conosciuto, da personaggi immaginati, conosciuti in altri libri. Che per me erano reali, ma al modo in cui sono reali i personaggi: non mi era mai importato di conoscere gli ingredienti della ricetta secondo la quale erano stati composti.

Quando cominciai a incontrare le mie prime lettrici e lettori, capitava che mi facessero notare di avermi “immaginata molto diversa, leggendo”; e saltava poi fuori che istintivamente mi avevano attribuito il carattere di una persona che nella realtà non esisteva, che era solo la voce, il personaggio. Ogni volta finivamo per ridere del caratteraccio di quella voce irritante, e con facilità mi smarcavo dalla sua ombra; mi stupivo però anche, in qualche misura, di quanto fosse ovvia, quella sovrapposizione. Ne attribuivo la responsabilità a fattori esteriori. Più tardi, leggendo un’osservazione di Hilary Mantel sulla prossimità percepita fra la cosiddetta “scrittura femminile” e un esercizio diaristico abbracciato non per scelta poetica ma in un certo senso per destino – corollario della teoria, ancora tacitamente condivisa, per cui l’universale sarebbe maschile – mi è capitato di pensare che fosse la mia prosa inclinata verso l’introspezione della protagonista a instillare il sospetto che si trattasse di autobiografia. Ma io stessa avevo giocato sull’ambivalenza di un passato condiviso con la narratrice, che avevo immaginato frequentare la mia stessa scuola. Le avevo persino dato il nome che da ragazzina, quando mi presentavo bisbigliando il mio alla velocità imposta dalla timidezza, capitava che gli interlocutori mi attribuissero per fraintendimento: Gaia, anziché Ilaria. Qualche volta, sempre per timidezza, evitavo di rettificare. 

Di fronte a un alter ego insopportabile, dire “non sono io” era stato facile, invece; un modo per sentirmi scagionata, perdonata, migliore. Persino troppo facile; forse per questo nel tempo ho creato avatar meno detestabili, per confondere le acque e mettermi in difficoltà, per costringermi a una posizione più scomoda, come davanti a quel gentilissimo signore che ho deluso stornando dalla mia persona la simpatia che aveva provato per un personaggio. 

Ogni volta che mi trovo a incontrare lettrici e lettori di qualsiasi età e salta fuori la questione della prima persona come maschera, le mie parole di spiegazione trasformano

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