La donna che è in me è alla disperata e incessante ricerca di un’influencer da seguire sui social. Nonostante la disperazione, la caccia non si è conclusa in pochissimo tempo come sarebbe avvenuto per la scelta di un uomo: in quel caso, a seguito di una recentissima rottura, avrei optato per il primo essere capitato a tiro – attribuendogli qualità che non ha per questioni di autoinganno salvifico. Invece, nella scelta di un’influencer si manifestano ambizioni da soddisfare assieme alla necessità di conservare un minimo di amor proprio. Insomma, voglio che si rispettino determinati canoni. Prima di tutto: cos’è un’influencer? È un oggetto che deve affascinarmi per la sua vita, per le sue prodezze e in virtù del quale devono parlare i fatti (reali, verosimili o inventati che siano). Quando scrollo le sue storie Instagram, pretendo di desiderare ciò che avviene in ogni momento che ha deciso di mostrarmi. Poi, una volta appurato che la sua cronaca di vita riesce a soddisfare la mia smania di inciucio qualitativamente rispettabile, sono persino disposta a comprare tutte le cazzate che ha da rifilarmi (trucchi, libri, pigiami, padelle etc.). Altra caratteristica: la esigo italiana, probabilmente per una forma di sovranismo dettata dalla brama di pettegolezzo in madrelingua. 

Sono addirittura più noiose del Pandoro gate di Chiara Ferragni. Come posso, dopo tutto questo dolore, riporre qualche speranza nella mia ricerca?

Da anni setaccio i profili Instagram di ogni singola influencer italiana. Risultato? Una desolazione totale. Potremmo suddividere l’immaginario di queste sciagurate in tre blocchi. Il primo blocco, più corposo, è quello delle liberali un po’ democristiane e un po’ attiviste a giorni alterni (tutto insincero e di copertura): foto per lo più patinate, capello tendenzialmente biondo, abbigliamento sempre in tiro anche quando risulta apparentemente sciatto, esistenze lugubri e trasgressioni spicciole da post Instagram in intimo sexy (frutto di noia domenicale e assenza di fantasia). Vanno in scena i sogni delle mie compagne di liceo: coppiettina in bella mostra, figlioletti come trofeo e sorrisi stampati in volto da paresi facciale. Il secondo blocco è quello delle ribelli: quali sono le loro storie? La telecronaca di vacanze a Ibiza come atto politico, il racconto di una corposa mancia di cinque euro data a un rider che ringrazia di cuore, la rivelazione mediatica della propria sessualità grazie alla visione dell’ultimo film di Erika Lust (l’importante è che sia porno “etico”), la scoperta di se stesse alla decima pagina del libro di Carlotta Vagnoli e così all’infinito, con una trafila di sviolinate prive di qualsiasi forma di leggerezza. Il terzo blocco è una minestra riscaldata composta da così tante verdure incommestibili (bookinfluencer, beauty consultant, columnist, podcaster etc.) che non vale la pena parlarne. Sono addirittura più noiose del Pandoro gate di Chiara Ferragni. Come posso, dopo tutto questo dolore, riporre qualche speranza nella mia ricerca? Ciononostante ho proseguito.

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