Sono tante le forme narrative che prosperano al riparo della rassicurante etichetta “romanzo” stampata in copertina, che la parola stessa ha perso ogni significato, poiché dietro ci si trova di tutto:, autobiografie, biografie, reportage, saggi, memoir, autofiction e tutti i loro ibridi. Tanto per intendersi, qualcuno ha cominciato a parlare di romanzo romanzo. Oppure: “Hai letto l’ultimo di Tizio?”. “Come no, è un romanzo vero”. Ma cosa fa di un libro un romanzo vero? Ci soccorrono le sure della narratologia: il romanzo è una narrazione che attiva un dispositivo retorico in grado di predisporre quel patto che spinge il lettore a voltare pagina: io, autore, ti fornisco un racconto e dei personaggi inventati ma credibili all’interno di un certo codice narrativo; tu, amico lettore, pur sapendo che di finzione si tratta, mi segui. E fin qui ci siamo. Ma non ci dice nulla di come ci sentiamo al momento di iniziare quel ballo a due che è la lettura.

Il romanzo ha sempre avuto uno stretto legame con la fede. Il lettore e l’autore di un romanzo sono come quei personaggi dei cartoni animati che, giunti dove la strada si butta nel baratro, continuano a camminare nel vuoto perché non si sono accorti – non si vogliono accorgere – che sotto non c’è niente. Oggi la fede scarseggia, o meglio si crede a tutto, ma proprio perché dispensiamo troppa credulità, non ce ne resta molta da concedere al romanzo. Questo residuo gli autori e le autrici se lo contendono il più delle volte pestando sul pedale del pathos, spesso a colpi di paratassi e sfruttando il meccanismo troppo umano dell’immedesimazione immediata col protagonista e il suo trauma; e proprio per questo vorrei parlare di un romanzo che va nella direzione opposta. 

Nel suo romanzo romanzo La reputazione (Guanda, 2024) Ilaria Gaspari svolge il racconto con una prosa articolata, ricca di incisi e di subordinate – la composta allure di un classico – e si sceglie una antieroina gravata da un fardello di inerzia e di ignavia degno di un inetto novecentesco. Come opportunamente l’autrice ha fatto notare, in letteratura troviamo molti inetti ma nessuna inetta: se nei romanzi le donne falliscono di solito è per la malevolenza altrui o per la stretta del condizionamento sociale. Fallire per ciò che si è – semplicemente assecondando la propria natura – è sempre stato un privilegio maschile.

La vicenda è rievocata molti anni dopo gli avvenimenti,

Questo contenuto è visibile ai soli iscritti

Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo.

Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.