Nel panorama filosofico nostrano, ancora largamente debitore di un’impostazione di studio neoidealista e spesso refrattario agli sviluppi più interessanti della ricerca scientifica, il lavoro di Telmo Pievani rappresenta una felice e feconda eccezione.
Pievani, classe ’70, è il più importante filosofo della scienza italiano, specializzato in filosofia della biologia ed evoluzionismo. Tra le sue numerose pubblicazioni, segnaliamo: Introduzione alla filosofia della biologia (Laterza, 2005), Introduzione a Darwin (Laterza, 2012), Imperfezione. Una storia naturale (Raffaello Cortina, 2019), Serendipità. L’inatteso nella scienza (Raffaello Cortina, 2021) e il recente Tutti i mondi possibili. Un’avventura nella grande biblioteca dell’evoluzione (Raffaello Cortina, 2024).
Come spesso accade nei suoi saggi, anche in quest’ultimo Pievani riesce a tenere assieme divulgazione scientifica e tradizione umanistica, e lo fa con una chiarezza invidiabile. Al centro di questo libro, la storia sorprendente (e poco conosciuta) della biochimica statunitense Frances Arnold, vincitrice del premio Nobel per la chimica nel 2018 per la scoperta dell’evoluzione direzionata degli enzimi. Ma ecco che, dietro una storia che sembrerebbe “solo” scientifica, spunta il fantasma di Jorge Luis Borges.
I.G.: Il suo ultimo libro racconta la storia di Frances Arnold. Come l’ha conosciuta? E perché nel nostro Paese non è ancora di dominio pubblico?
T.P.: È una bella domanda. Questa è soltanto una delle tante storie poco conosciute, in realtà. La comunicazione della scienza, purtroppo, si basa spesso su pochi personaggi carismatici, solitamente maschili: il premio Nobel, il personaggio bizzarro o sopra le righe… Ci sono tante storie fantastiche ancora poco conosciute, come quella di Lynn Margulis, la grande microbiologa che scoprì la simbiosi. La sua storia ha un tratto in comune con quella della Arnold: per vent’anni la comunità scientifica non le diede retta.
Ho conosciuto la Arnold a Padova nel 2019, quando l’abbiamo invitata per conferirle il dottorato honoris causa. Poi ho letto la sua autobiografia pubblicata sul sito della Nobel Foundation. Quando ho scoperto che tutto, per lei, era iniziato dalla lettura del racconto La biblioteca di Babele, di Jorge Luis Borges, è scoccata la scintilla.
I.G.: Cosa intende?
T.P.: Mi piace raccontare storie che facciano capire, in modo indiretto e non pedante, come funziona il metodo scientifico. Attraverso una storia specifica si possono capire tante cose: in questo caso, ad esempio, il ruolo dell’immaginazione nella scoperta scientifica. Immaginarsi un modello teorico astratto, combinatorio; confrontarlo con la realtà e finire per scoprire qualcosa della realtà stessa. È una capacità anticipatrice della scienza, poco conosciuta perché continuiamo ad avere tanti stereotipi sulla ricerca scientifica. Uno dei peggiori è che la scienza sia soltanto raccolta di dati, osservazioni, descrizioni. Ovviamente questo è un aspetto importantissimo; ma la scienza che conta, quella veramente creativa, è pensiero, domanda, curiosità, interrogazione. Come diceva Pasteur, i dati non parlano mai da soli, li devi far parlare tu. Li devi interrogare e connettere. Ci vuole una mente umana che sappia farlo. Questa storia era perfetta perché univa tutti questi elementi.
I.G.: Partiamo da Borges, e da uno dei racconti più belli della letteratura contemporanea: La biblioteca di Babele. Cosa c’entra Borges con l’ingegneria genetica?
T.P.: C’entra – in modo indiretto, ovviamente. Il racconto è del 1941 e non nasce per caso. Borges era appassionato di matematica, affascinato dall’idea di infinito, di ricorsività. Lui diceva di non capire nulla di matematica, ma in realtà la leggeva e, incuriosito, la trasformava in narrazione. Pensa ai suoi racconti: il libro che si ripete sempre, l’uomo che non dimentica niente… tutte metafore estremamente feconde, che nel Novecento sono state riprese da tanti cineasti e artisti.
In questo racconto, Borges immagina una biblioteca mostruosa, combinatoria, che contiene tutti i libri possibili permutando le 25 lettere di un alfabeto. Contiene tutto, ma proprio tutto, quello che può essere scritto. Emerge un numero di libri iper-astronomico, non infinito ma immensamente grande, più grande di tutte le particelle presenti nell’universo. Borges concepisce questa biblioteca in modo tale che sia disperante. Dentro i suoi esagoni ci si perde, i libri sono collocati sugli scaffali senza seguire un ordine. E dice una cosa geniale: che una biblioteca che contiene così tanta informazione è talmente disperante che è come se non contenesse nemmeno un libro. Sia detto solo per inciso, ma pensaci: è una metafora perfetta per internet. Un luogo digitale dove c’è tutto quello che sappiamo; ma senza una guida non sai cosa cercare, e se non hai criteri di discernimento ti perdi fra le fake news, non distingui più il vero dal falso… Borges ha creato una metafora per un fenomeno che non poteva neanche immaginare.
Ma torniamo all’ingegneria genetica. Questa metafora combinatoria si può usare per altri tipi di libri: ad esempio, per le proteine. Le proteine sono formate da un alfabeto di aminoacidi, che sono 20. Mediamente, una proteina ne ha 500 (immagina una frase, o un piccolo libro): e allora, la metafora si allarga. Posso idealmente immaginare la biblioteca di tutte le proteine possibili, elevando alla 500 quei 20 aminoacidi. E la stessa cosa, volendo, posso farla anche col DNA, formato dalle quattro famose basi azotate: adenina, timina, citosina, guanina. La biblioteca di Babele è diventata così una metafora applicabile alla scienza perché è un gioco combinatorio fatto sul linguaggio. È una vecchia metafora: pensiamo al “libro della natura” di Lucrezio. O a Galileo, che diceva che il mondo è scritto in caratteri matematici e geometrici: se conosci quel linguaggio, l’universo ti si squaderna davanti e impari a leggerlo. È una metafora che piaceva tanto anche a Calvino, che la riprende nelle Lezioni americane: l’intelligibilità del mondo come libro era una delle sue immagini preferite.
I.G.: Come usa questa metafora, la Arnold?
T.P.: Borges voleva che la sua biblioteca fosse kafkiana. Un oggetto senza senso, che facesse impazzire. Siamo bibliotecari disperati, immersi in un mondo che non possiamo capire. Nella biblioteca delle proteine, invece, un ordine c’è, come diceva il biologo inglese John Maynard Smith, il primo a concepirla nel 1970. Se un libro-proteina sta in un certo scaffale, in quelli vicini e possibili ci sarà la stessa proteina che varia di una sola mutazione rispetto all’originale, poi la proteina con due mutazioni, e così via. Come se vicino a una copia di Moby Dick, ci fosse lo stesso libro, diverso per un solo refuso. Questo cambia tutto: puoi orientarti nella biblioteca. Sai come spostarti nell’adiacente possibile. La Arnold capisce che si può partire da un libro, da una proteina; e come in un libro, si può modificare la proteina di partenza con una sola mutazione – cioè, con un singolo refuso. L’ingegneria genetica ti consente, attraverso l’inserimento di mutazioni singole, di navigare, di spostarti dentro la biblioteca. Con gli animali non puoi farlo: li devi allevare, ci metteresti centinaia di anni. Ma con le proteine sì.
I.G.: “L’adiacente possibile” è una metafora molto bella: ciò che differisce da ciò che esiste per una sola mutazione.
T.P.: Esatto. È una metafora di Stuart Kauffman, un grande biologo statunitense. E anche letterariamente è bellissima: ogni istante della vita di ciascuno di noi ha un suo adiacente possibile. Ogni scelta che faccio “uccide” tutti gli altri possibili mondi nei quali potrei andare. C’è un numero iper-astronomico di adiacenti possibili che potrei esplorare, ma la mia scelta va su uno e uno soltanto di quegli universi. E qui mi torna in mente Calvino, un suo meraviglioso dialogo con Daniele Del Giudice. Alla domanda sul perché della sua fascinazione per i giochi combinatori, Calvino risponde: “Perché sono modi per sconfiggere la tragedia dell’unicità delle nostre vite”. Anche se la mia vita è una sola, mi rendo conto che in ogni passaggio c’erano tante altre vite potenziali. Il gioco combinatorio narrativo ti fa vivere una molteplicità di vite altrimenti escluse. Per Calvino la letteratura è un modo per esorcizzare l’unicità dell’esistenza.
Tornando alla biologia: Frances Arnold esplora questo adiacente possibile. Parte da una proteina. L’adiacente possibile è rappresentato da tutte le mutazioni che potrebbe indurre: lei ne sceglie una sola e vede che effetti produce. Poi ne aggiunge un’altra, un’altra ancora, e così via. Esplora un adiacente possibile per volta.
I.G.: E così arriviamo all’argomento al centro del suo libro: il rapporto fra possibilità e realtà. Ne L’uomo senza qualità, Musil scriveva: “se esiste il senso della realtà deve esistere anche un senso della possibilità”. E l’evoluzione pare non averlo, perché non le ha esplorate tutte.
T.P.: È così. Frances Arnold infrange un dogma scientifico fortissimo, quello espresso dai suoi colleghi ingegneri maschi all’inizio della sua carriera: “se la natura non l’ha fatto, vuol dire che è impossibile”. Dire una frase del genere significa pensare che la natura sia un ingegnere essa stessa, ottimizzante, che ha già esplorato tutte le possibilità: quelle che si sono concretizzate nella realtà sono le migliori, sopravvissute alla pressione della selezione naturale. Dunque la natura è perfetta. È una vecchissima idea aristotelica: la natura è piena, c’è tutto, è già compiuta. La Arnold scopre che se confronto lo spazio ideale di tutte le proteine possibili con quelle che effettivamente esistono nella realtà, mi accorgo che le seconde sono soltanto un piccolo sottoinsieme delle prime. E qui si apre la domanda: perché è così? Perché in natura esistono questi vuoti?
La risposta dell’evoluzionismo classico, funzionalista, quello di Daniel Dennett e Richard Dawkins, è che questi vuoti esistono perché, chiunque finisce nelle zone del possibile, muore: ha un adattamento basso, è disfunzionale. Se non esisti è perché i tuoi antenati si sono già estinti da tempo. La Arnold dissente: quelle zone sono vuote in parte perché non sono funzionali, in parte per vincoli fisici, che semplicemente impediscono a quella proteina di avere quel tipo di forma perché contraddice le leggi fisiche (che sono superiori a quelle della biologia). Ma può anche essere che dentro lo spazio del possibile ci siano proteine ed enzimi funzionali, che svolgono la loro funzione perfettamente ma che la natura non ha ancora inventato o esplorato perché non c’è stato il tempo sufficiente.
Ecco il potere della storia, anche in biologia: ovvero la storicità e la contingenza del processo evolutivo. Dal punto di vista teorico era già stato sostenuto. Stephen Jay Gould, il grande biologo statunitense, ha detto che se ripetessimo il film della vita n volte, ci ritroveremo con n finali diversi. È una bellissima metafora, ma non c’è un esperimento per dimostrarla: non abbiamo la macchina del tempo. La Arnold, credo, per la prima volta, ci è riuscita. Spostandosi nella grande biblioteca delle proteine, ha esplorato le possibilità ancora irrealizzate e ha trovato in queste zone qualcosa che prima non c’era e che tuttavia funziona benissimo. Per la prima volta, a livello evolutivo, si è dimostrato che il possibile è più grande del reale.
I.G.: Come definire gli enzimi creati dalla Arnold: artificiali o naturali?
T.P.: È una domanda interessante perché è impossibile rispondere. Sono artificiali ovviamente, perché sono stati creati in laboratorio. Prima non c’erano. Tant’è vero che il meccanismo si chiama “evoluzione direzionata degli enzimi”, che altro non è se non una classica selezione artificiale darwiniana. Ma da un altro punto di vista, sono perfettamente naturali: non sono fatti di sostanze diverse da quelle di tutti gli altri enzimi presenti in natura. Sono normali enzimi coltivati in laboratorio. Una ricerca come questa smonta radicalmente la dicotomia naturale-artificiale.
I.G.: Cadendo questo muro, mi pare che cada anche una ragione di possibile paura verso l’ingegneria genetica. Dire che una cosa non si può fare perché la natura non l’ha mai fatta, non ha più senso.
T.P.: Esattamente. Questo è un esempio che ti fa capire che essere contrari a una modificazione genetica invocandone l’innaturalità è un argomento molto debole. Perché, in quel caso, devi definire cos’è naturale: e qui sei in grandissima difficoltà. Cos’è naturale? Qualsiasi pianta o animale allevato, è naturale o no? Noi stessi, siamo naturali? No: siamo stati letteralmente plasmati dalle nostre tecnologie. Affezionarsi a una visione nostalgica o essenzialista della natura ci porta a fare ragionamenti scorretti. Ciò tuttavia non significa dare il via libera a qualsiasi artefatto e metterlo in natura. Assolutamente no. Ma sulla base di quali argomenti fondo un ragionamento etico che mi dice che non devo usare quella tecnologia? Sicuramente quello della naturalità non funziona molto bene.
I.G.: Immagino che molte altre innovazioni emergeranno da qui nei prossimi anni, ma cosa siamo riusciti a fare, finora, con queste nuove proteine?
T.P.: L’elenco è vastissimo. Ci sono intere filiere produttive che lavorano sugli enzimi di Frances Arnold – che tra l’altro ha deciso di non brevettare la sua tecnologia. È una scelta etica importante: oggi sarebbe miliardaria. Ma, come ha detto lei stessa, non si può brevettare la selezione naturale! Risultato? Quando al supermercato compri i cosiddetti detersivi green, che non utilizzano metalli pesanti o preziosi, con ogni probabilità stai comprando un prodotto sintetizzato a partire dagli enzimi della Arnold. Oppure, ancora, i cosmetici che riducono le micro-plastiche, o i bio-combustibili usati in ambito agricolo, ottenuti da fibre vegetali. Lei ha sempre messo un vincolo etico sull’utilizzo dei suoi enzimi. Ha sempre detto di volerli usare per tecnologie green, per ridurre l’impatto ambientale dell’uomo: quindi nessun uso militare, nessun uso industriale fine a se stesso. Poi c’è l’ambito medico. Enzimi che possono sintetizzare insulina o vaccini. Una volta si producevano modificando geneticamente un batterio, adesso non serve più. Puoi produrre direttamente l’enzima che sintetizza la sostanza di cui hai bisogno; una volta sintetizzato, lo metti in un batterio, e il batterio fa il suo lavoro. È un avanzamento biotecnologico pazzesco che, anche se non lo sappiamo, ci cambia la vita.
I.G.: Un’altra storia molto interessante che racconta nel libro è quella di Syn 3.0: il “libro” più breve che si può scrivere col DNA, organismo creato in laboratorio nel 2016 dal team di Craig Venter. 473 geni sono il minimo sindacale per creare un vita: se ne togliamo anche solo uno, l’organismo muore. Ma sebbene siano così pochi, non conosciamo ancora la funzione di un terzo di questi geni.
T.P.: Questa storia dimostra un fatto paradossale, che è molto difficile da accettare per noi. Si tratta di un tentativo bio-ingegneristico molto ardito: hanno preso l’organismo col genoma più piccolo esistente in natura, un micoplasma intestinale unicellulare, che ha bisogno di circa mille geni per funzionare. Con una quantità di tempo e di denaro pazzesca, hanno iniziato l’esperimento: togliere un gene alla volta e vedere cosa succede all’organismo. Per quasi la metà dei geni, non succedeva niente. L’organismo sopravviveva ancora (non benissimo, in realtà, ma sopravviveva). Arrivati a quei 473, non era più possibile andare avanti senza uccidere il micoplasma. Si è arrivati al muro di complessità minima: meno complesso di così non puoi essere. Evolvendo, però, puoi esplorare forme di complessità più alte – così funziona l’evoluzione, ha dei muri verso il basso.
Si è dunque creato in laboratorio l’organismo col minor numero di geni esistente in natura, e abbiamo scoperto che un terzo di quei 473 geni, sicuramente essenziali, non sappiamo che cosa fa. Se li togli, la cellula muore: ma non sappiamo perché.
Da questo esperimento sono nate migliaia di linee di ricerca nuove. Tutti si sono buttati su quei 150 geni circa, sui quali non sappiamo nulla. Racconto spesso questa storia perché plasticamente definisce quanto siamo ignoranti su tutto: sul genoma, sulla biologia, su come funziona una cellula, sull’universo. Ma questa ignoranza è una buona notizia, significa che abbiamo ancora un sacco di cose da scoprire. E con ogni probabilità, dentro quei geni misteriosi, ci saranno informazioni di valore medico fondamentali per noi.
I.G.: Tornando ai giochi combinatori: in un capitolo del libro analizza un bellissimo racconto di Italo Calvino, Il conte di Montecristo, dalla raccolta Ti con zero, del 1967. In questo testo, Calvino sembra delineare, in narrativa, un modello epistemologico. È così?
T.P.: Sì. Lo lessi per la prima volta al liceo e rimasi folgorato. Non ne ho mai scritto, ma ci sono tornato più e più volte sopra. Erano gli anni dell’OuLiPo, in cui Calvino leggeva Popper, era appassionato di metodo scientifico, di matematica combinatoria. E la sua intuizione della fortezza di If è straordinaria: è un modo molto bello e letterario di spiegare come funziona il metodo ipotetico-deduttivo, quello che oggi chiamiamo inferenza verso la spiegazione migliore.
I due personaggi del racconto, l’abate Faria e Dantès, sviluppano due strategie alternative per evadere dalla fortezza in cui sono imprigionati – strategie entrambe fondamentali, per Calvino. Faria rappresenta la strategia empirica: scava, buca, tenta perennemente di evadere scontrandosi con la realtà della fortezza. Dantès raccoglie i dati di Faria, ascolta, annota, ma aggiunge un’altra cosa: sviluppa nella sua mente un modello di “fortezza perfetta”. Pensiamo a una mappa matematicamente completa di un certo numero di parametri, come la biblioteca di proteine di Maynard. A quel punto in testa hai un modello compiuto: non ti resta che paragonarlo alla realtà. Se la fortezza reale è identica alla fortezza ideale, allora dobbiamo rassegnarci, perché da qui non usciremo mai; ma potrebbe essere che la fortezza reale abbia qualche differenza o smagliatura rispetto alla fortezza ideale: da lì noi riusciremo a evadere, perché quello è il punto in cui la fortezza è imperfetta. È un’immagine geniale.
Pensiamo a cosa è successo nella scienza: i fisici, negli anni Cinquanta e Sessanta, sviluppano un modello, chiamato simmetrico, delle particelle elementari. Include tutte le particelle elementari possibili conosciute. Salta fuori che c’è un buco: perché il modello funzioni, c’è bisogno di una particella di campo, che nessuno ha mai visto, che si chiama bosone di Higgs. Sessant’anni dopo la trovano. La fortezza ideale ha previsto un buco rispetto alla realtà: siamo andati a cercarlo, e l’abbiamo trovato. Oppure pensiamo alla tavola periodica degli elementi di Mendeleev, che si accorge che gli elementi hanno una ricorsività e, in questo suo schema, trova dei buchi. Questi buchi non sono imperfezioni: sono elementi che devono esistere ma che finora nessuno ha mai osservato. E guarda caso, cercandoli, li trovano. Questo per me resta l’aspetto più bello della scienza: com’è possibile che uno scienziato, chiuso nella sua stanza, crei nella sua testa un modello ideale, poi va fuori, nella realtà, e trova il modello previsto? È qualcosa di magico e difficile da spiegare.
I.G.: Dalla suggestione di un racconto di Borges è partita una linea di ricerca scientifica. Conosce altri esempi simili, nei quali si parte da un’intuizione letteraria per arrivare a una scoperta scientifica?
T.P.: Ce ne sono tanti. Ovviamente molti non li conosco. Ma pensiamo alle influenze della fantascienza sulla ricerca scientifica. Come in un gioco di rimandi, si parte dalle conoscenze scientifiche, le si proietta in avanti in narrativa, si immaginano sviluppi, e quelle immaginazioni ispirano di rimando gli stessi scienziati. Ma con scienza e fantascienza, siamo ancora in contesti limitrofi, secondo me.
A me piacciono più casi come l’uroboro, ad esempio, il mito filosofico del serpente che si morde la coda, un’immagine dell’infinito e della circolarità. Quando nel 1865 Kekulé trova la formula chimica del benzene, tutta arrotolata su se stessa, dice che l’immagine dell’uroboro gli è stata di ispirazione. Ma non mi limiterei alla letteratura: si tratta piuttosto di un influenzarsi a vicenda di saperi e linguaggi diversi. Pensa a Jacques Monod, grande genetista francese che, nel processo di scoperta dell’operone, quando ha bisogno di una metafora, usa la chiave di violino. Non a caso Monod era un grande violoncellista, a lungo incerto, in gioventù, su quale carriera intraprendere. Quando deve trovare la sintesi della sua ricerca, la trova nelle simmetrie e nell’ordine matematico della musica, di cui si era imbevuto da ragazzo. Cosa c’entra la musica con la genetica? C’entra, perché è stata la sua forma mentis, l’analisi delle simmetrie e delle armonie musicali, ad averlo ispirato a una scoperta scientifica. È qualcosa di misterioso, l’ispirazione. Jay Gould diceva sempre che nel momento della scoperta non ci sono più confini disciplinari, ma una sorta di magma creativo, dal quale puoi attingere alle fonti più diverse: letteratura, musica, arte…
I.G.: E viceversa, forse: dalla scienza alla letteratura.
T.P.: Mi ha sempre colpito molto uno degli ultimi articoli scritti da Primo Levi, su «La Stampa», negli anni Ottanta, dove dice che gli scrittori del futuro, per trovare l’ispirazione, leggeranno «Nature» e «Science». Aveva ragione: quelli saranno i grandi serbatoi delle storie che racconteremo nel prossimo secolo. Pensa alla letteratura contemporanea. Cosa fanno i vari Jonathan Safran Foer, Amitav Ghosh, Jonathan Franzen, Ian McEwan? Si occupano tutti di questioni che hanno un innegabile côté scientifico. La crisi climatica, l’intelligenza artificiale… La letteratura di oggi è imbevuta di temi scientifici che puoi leggere su «Nature» e «Science».
I.G.: Mi permetta un’ultima domanda: è vero che le hanno dedicato un asteroide?
T.P.: Non ci credevo nemmeno io, pensavo a uno scherzo. Sono candidature che vengono fatte da parte delle varie sezioni dell’Unione Astronomica Internazionale. C’è tutta una lunga procedura di vaglio: il tuo curriculum, le tue pubblicazioni… Quando l’ho letto sul sito della Nasa, allora ho capito che la notizia era vera. E proprio domani sarò in Sicilia per la cerimonia all’Osservatorio astronomico di Isnello. Quindi sì, esiste un asteroide “telmopievani”. Sono andato subito a controllare che non sia di quelli pericolosi, ma non sembra: è un sasso lungo duecento metri che se ne sta tranquillo, tra Marte e Giove, in un’orbita abbastanza circolare. Mi sarebbe dispiaciuto aver dato il nome a un asteroide distruttore di mondi…