Dopo i contributi di Walter Siti, Francesco Pacifico, Filippo D’Angelo e Marco Rossari, continua la serie di pezzi sull’arte della scrittura pubblicati grazie alla collaborazione di Snaporaz con la scuola Belleville.
Ho scritto due libri e ne ho tradotti ottantasette, perciò non è strano che mi consideri una traduttrice molto più che una scrittrice. D’altronde al master di scrittura creativa dove mi diplomai tanti anni fa, il giudizio finale che ricevetti diceva sostanzialmente che non sarei arrivata da nessuna parte perché non avevo capacità narrative, o qualcosa del genere – non stetti molto ad ascoltare, visto che avevo già cominciato a lavorare e stavo traducendo Le correzioni. Ma per quanto sia piacevole togliersi i sassolini dalle scarpe, è pur vero che per me tradurre e scrivere sono due cose molto diverse, la prima facile e goduriosa, la seconda soddisfacente ma faticosa. Mentre scrivevo il mio primo libro raccontavo che mi sembrava di sollevare pesi col cervello, e adesso che ho scritto il secondo guardo con soddisfazione la creatura pubblicata e penso “è stato bello, però mai più” (e intanto penso già al prossimo).
Conoscere bene un’altra lingua e scrivere bene in italiano sono due qualità necessarie ma non sufficienti per tradurre bene: il talento di chi scrive è diverso dal talento di chi traduce, e c’è chi li possiede entrambi e chi ne possiede uno solo. Io, per esempio, posso definirmi scrittrice solo quando mi trovo a lavorare su una storia già pronta – qualcosa che ho vissuto o che mi è stato raccontato, e che poi posso, semmai, espandere con un lavoro di ricerca. In altre parole, mi manca la capacità di inventare storie. Certo, tutti gli scrittori inseriscono elementi autobiografici nelle loro opere (chi più e chi meno: Hemingway metteva la sua vita nei suoi romanzi molto più di quanto non faccia Stephen King, per esempio), ma in genere per chi scrive fiction il vissuto è un punto di partenza, non l’elemento centrale della narrazione.
Per scrivere un romanzo, insomma, occorre saper creare personaggi e storie, e poi saper organizzare la narrazione, e poi essere capaci di raccontare con una voce personale e unica, cioè con quello che si chiama stile. Chi traduce, invece, non lavora né sulla creazione né sull’organizzazione della storia: il suo compito è riscrivere il testo nella propria lingua cercando di mantenere intatti la voce e lo stile dell’autore.
Scrivere e tradurre sono due talenti diversi, dunque. Ma cos’è il talento? Qualcosa Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti