Nel 1967 Guy Debord pubblicava La società dello spettacolo, un libro che descriveva come la società moderna cominciava a essere dominata dalla spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita. Debord descriveva una realtà in cui l’autenticità delle relazioni umane, del lavoro e della cultura era stata sostituita da una rappresentazione mediata, tutto cominciava a essere ridotto a una merce da consumare o a uno spettacolo da osservare. 

Quella degli anni Sessanta era comunque una società in cui il potere di creare e distribuire immagini era nelle mani di pochi, mentre oggi possiamo tranquillamente affermare di vivere in una società dello spettacolo “diffusa”, in cui chiunque può produrre e condividere contenuti. I social media hanno democratizzato la creazione di immagini, intensificando la spettacolarizzazione della vita quotidiana. Ognuno è diventato sia spettatore che attore del proprio spettacolo, capace di trasformare in pura merce da consumare ogni aspetto della propria vita. Una partecipazione spesso superficiale, guidata da logiche di consenso: like, follower e viralità, che trasformano l’individuo in un prodotto. 

In questo nuovo mondo i musei occupano ancora uno spazio importante: la cultura, pur essendo spettacolarizzata, vi ha mantenuto una certa separazione tra sostanza e immagine. Le mostre rappresentano una pausa in questa corsa disperata verso il consumo delle immagini standardizzate. Ma purtroppo, anche in quell’ambito, le narrazioni per immagini rischiano di contare più delle idee, mercificando le esperienze che si svolgono dentro il mondo dell’arte. Gli eventi culturali, i festival musicali, le mostre sempre più “instagrammabili” si stanno trasformando. Se negli anni Sessanta la cultura di massa era prodotta e distribuita da grandi industrie (cinema, musica, editoria, musei statali), che imponevano modelli standardizzati, oggi la stessa cultura è sempre più guidata dagli algoritmi delle piattaforme digitali, che decidono cosa è popolare e cosa no. Questo ha creato una cultura frammentata, in cui i contenuti virali spesso prevalgono su quelli di qualità. Inoltre, l’attenzione è diventata la merce più preziosa, e i contenuti sono progettati per catturarla il più rapidamente possibile. Come può l’arte sopravvivere a queste logiche è difficile da capire, in un prossimo futuro, infatti, non ci sarà più nessuna distinzione tra mostre ed eventi che utilizzano l’arte come intrattenimento, dove la banalizzazione sostituisce la costruzione di pensiero a opera degli artisti proprio perché il valore dell’opera è sostituito dalla sua attrattiva ludica. 

“Euphoria” combina intrattenimento, commercio e cultura popolare, offrendo un’esperienza multisensoriale che mescola arte e tecnica. Un po’ come le fiere che giravano nei primi del Novecento e attiravano folle di visitatori desiderosi di vedere stravaganti novità e attrazioni circensi

Un primo segno di questa nuova tendenza è il fenomeno del Balloon Museum, pensato e costruito appositamente per generare contenuti condivisibili. L’opera non è più il centro del discorso curatoriale, che si sposta decisamente sul rituale performativo dell’evento. La cultura, invece di essere un mezzo per comprendere il mondo e noi stessi, diventa un prodotto da consumare in un tempo breve per poi essere dimenticato. La mostra allestita a Roma, Euphoria – Art is in the Air (La Nuvola, fino al 30 marzo), è un’emanazione di questo nuovo circuito culturale. Non è allestita in un museo ma in un luogo generico, un centro congressi, la cui caratteristica principale è quella di ospitare fiere ed eventi di altro tipo. La mostra combina

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