Nell’incipit delle Confessions di Rousseau un concetto viene affermato con forza: quello di unicità. Unicità dell’uomo che verrà raccontato nelle pagine che seguono e unicità dell’opera stessa contenuta in quelle pagine: «Mi inoltro in una impresa senza precedenti, l’esecuzione della quale non troverà imitatori. Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della sua natura; e quest’uomo sarò io. Io solo». 

In queste righe nulla va preso alla lettera. Non è vero che quando Rousseau scrive Les Confessions la scrittura autobiografica sia «senza precedenti», e nemmeno che «non troverà imitatori» (al contrario, diventerà libro influentissimo per lo sviluppo del genere). E poi c’è quella parola, «verità», che quando si tratta di autobiografia è sempre problematica. 

Del resto, il genere autobiografico, dietro l’apparente semplicità del suo statuto (cosa c’è di più immediato di “scrivere di sé stessi”?), nasconde un’intricata selva di problemi teorici e pratici, paradossi, aporie, ambiguità. Non per nulla è un genere che nel corso degli anni ha spesso attirato l’interesse di studiosi e critici che hanno provato a sondarne le complessità. Una ricca bibliografia a cui, nell’ultimo anno, si sono aggiunte le quasi seicento pagine de Il narratore postumo. Confessione, conversione, vocazione nell’autobiografia occidentale di Sergio Zatti, edito da Quodlibet.

Zatti, da critico letterario esperto, firma un volume considerevole non solo per mole, ma anche per la densità di questioni, autori, fonti chiamati in gioco. Il libro inizia e finisce con

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