Annusare ciò che c’è intorno. Aprire la finestra mentre piove. Guardare per terra per vedere cosa spunta. Provocarsi delle sorprese. Mischiare. Mettere esplosioni di colore nel messo dell’esistente, spiazzare, disegnare per poi cancellare. Praticare – e non teorizzare – l’inclusione. Costruire, con le mani nel terreno, la convivenza, una comunità nuova. Forse, addirittura, una comunalità inedita. Forse il testo più politico del momento – giustamente floreale perché gioioso – sta dentro l’ormai leggendaria collana bianca di Einaudi “Vele”, spesso costruita intorno a testi sufficientemente affrontabili (parlo di numero di pagine) da essere realmente portabili e quindi combattenti rispetto al digitale. Parlo di La natura selvatica del giardino. Elogio delle erbacce di Antonio Perazzi, che non a caso ho portato in giro nella tasca – spantegandolo – e ho letto in aiuole pubbliche, parchetti senza vita apparente, anche e per puro caso sulle famose pietrone di Central Park ma pure negli spiazzi dignitosi e pieni di macchia mediterranea di un certo pregio dietro casa mia. Perazzi è un appassionato di Deleuze, e chi non lo è, ma certo il pensiero va immediatamente al teorico più importante per capire il tempo contemporaneo (che era futuro per lui): Ivan Illich, il cui appello per un ritorno alla convivialità, intesa nel senso più pieno, diventa essenziale per affrontare il bordello nel quale viviamo, anche con un senso coraggioso e forse folle di apertura a quello che verrà. E che chissà che mai sarà. È così che le erbacce qui celebrate dal più intelligente dei creatori di giardini italiani diventano una pratica quotidiana che sottende un’attenzione alla spontaneità dell’accadere, una fiducia in ciò che avviene anche se non l’avevamo previsto, «senza discriminazione tra selvatico e coltivato». Se non è politica questa…

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