Dopo i contributi di Walter Siti, Francesco Pacifico, Filippo D’Angelo, Marco Rossari, Silvia Pareschi, Luca Ricci e Ilaria Gaspari, continua la serie di pezzi sull’arte della scrittura pubblicati grazie alla collaborazione di Snaporaz con la scuola Belleville.
Per vent’anni, da quando sei stato in grado di tenere in mano la penna e da quando una suora con un braccio solo ti insegnò a leggere e a scrivere, sei stato uno scrittore. Non si parla qui di una vocazione letteraria – neanche sapevi cosa fosse la letteratura – ma del bisogno elementare di esprimerti. La timidezza ti spegneva la voce in gola. Quindi, il più delle volte, tacevi. In quel silenzio la tua mente aggrovigliava fantasie. Credi che, se non ti avessero insegnato a tracciare lettere che componevano parole che componevano frasi che potevano aiutarti a sciogliere quei nodi, avresti finito per esplodere. Del resto a disegnare facevi pena e ancora oggi non sei capace di tracciare una figura umana decente – tratto che ti accomuna, in modo non troppo lusinghiero, a un noto e inetto aspirante pittore austriaco del secolo passato, e ti chiedi se ciò non abbia qualche significato recondito ma poco promettente. Adoravi ascoltare musica, ma era un mondo incomprensibile e arduo e il massimo che riuscisti ottenere, molto tempo dopo, fu suonare un basso imitazione Fender in un gruppo da garage. Cos’altro avresti potuto fare? Scoperta la letteratura, non ti restava che buttarti in quei libri. Era inevitabile che cercassi di scrivere a tua volta. Era inevitabile che cominciassi con un racconto. Era inevitabile che cominciassi dall’incipit.
Per molto tempo ho pensato che, dovendo scrivere, tanto valeva farlo meglio di chiunque altro prima di me. I miei progetti erano ambiziosi e vaghi: il più delle volte si limitavano a elementi d’atmosfera privi di qualunque spunto dinamico. Non c’era fretta, per la trama. Prima, per partire con il piede giusto, sarebbe stato necessario scrivere il miglior incipit di tutti i tempi. Scrivevo, stampavo, strappavo, fumavo, come nella migliore iconografia hollywoodiana dello scrittore amletico. Riempivo quaderni di inizi di romanzi, racconti, racconti lunghi e romanzi brevi. Tutta una biblioteca di capolavori in potenza, le cui prime (e uniche) tre righe mi sembravano poter stare alla pari coi miei maggiori di quel tempo lontano. Poi accadde una cosa semplice e meravigliosa: conobbi degli scrittori in carne e ossa. Erano vivi. Avevano la mia età e scrivevano racconti – racconti che non si limitavano a iniziare, continuavano. Racconti in atto, non in potenza, con uno svolgimento e una fine. Storie. Onestamente, non erano le migliori mai scritte. Ma rispetto alle mie avevano un grande vantaggio: esistevano.
Fu allora che abbandonai i miei quaderni di scritti potenziali. E i migliori incipit di tutti i tempi.
Quando leggiamo un racconto o un romanzo l’incipit ci appare come un elemento propulsivo. Se è quello giusto non solo brilla di luce propria, è bello per sé, ma svolge la funzione di proiettarci immediatamente in avanti, dentro la storia. Non vediamo l’ora di scoprire cosa succederà dopo che «Alla fine di Giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta» (Fenoglio, Un giorno di fuoco), o dopo che il narratore ci consegna la possibilità di ritornare a un intero universo dicendo «Fu la peggiore alzata di tutti i secoli della mia infanzia» (ancora lui, Pioggia e la sposa).
Ma dall’altro punto di vista – quello di chi il racconto lo scrive – le cose stanno un po’ diversamente. L’incipit può essere tuo nemico. Ti si para davanti come una porta chiusa, e cercare di scassinarla può Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti