Una bellezza anni ’50, tipicamente americana. Volto levigato, sorriso perfetto, onde di capelli dorati, corpo affusolato. Agli esordi, è un’attrice bionda tra altre attrici bionde, con la sola particolarità del taglio degli occhi, leggermente distanti, allungati. Assomiglia un po’ a Grace Kelly – la più algida, sofisticata e sensuale tra le bionde hollywoodiane. Anche quella di Gena Rowlands (1930-2024) è una bellezza ossimorica, una superficie apparentemente fredda che nasconde qualcosa di imprevisto e inaspettato. Non tanto la sensualità – che pure non manca – ma qualcosa che ha a che vedere con l’indefinitezza della vita, la mutevolezza degli umori, la frustrazione e l’esuberanza, con la possibilità di esondare e di perdere il controllo. Infatti il parallelismo con Kelly è solo di superficie, perché Rowlands non incontra un principe che la porta lontano da Hollywood, bensì un regista-attore-sceneggiatore, John Cassavetes, che concepisce il cinema in modo personalissimo e spregiudicato, fuori dagli schemi stilistici e produttivi consueti, aprendole così uno spazio di impensata libertà espressiva.
Benché abbiano avuto anche carriere autonome (in molti casi hanno recitato in film di altri, belli e meno belli, e per la televisione, quasi sempre per mettere insieme i soldi per autoprodursi), è pressoché impossibile scindere Gena Rowlands e John Cassavetes
Sono gli anni ’50, si incontrano all’American Academy of Dramatic Arts, a New York, recitano insieme in teatro, si sposano e restano legati fino alla morte di Cassavetes nel 1989. Benché abbiano avuto anche carriere autonome (in molti casi hanno recitato in film di altri, belli e meno belli, e per la televisione, quasi sempre per mettere insieme i soldi per autoprodursi), è pressoché impossibile scindere Gena Rowlands e John Cassavetes. Da questo sodalizio nascono i film più importanti nella carriera dell’uno e dell’altra, tra la fine degli anni ’60 e i primi ’80: Faces (Volti, 1968), Minnie and Moskowitz (1971), A Woman Under the Influence (Una moglie, 1974), Opening Night (La sera della prima, 1977), Gloria (Una notte d’estate, 1980), Love Streams (Scia d’amore, 1984).
Al di là della formula abusata secondo cui Rowlands è stata la musa di Cassavetes, è indubbio che la relazione tra i due sia tra i legami artisticamente più fecondi nella storia del cinema, fondato su un riconoscimento reciproco e una tensione creativa, talvolta burrascosa, tra attori. Fare un film insieme vuol dire, per Rowlands, «essere amati da un regista che è un attore, che ti incoraggia, capisce i tuoi problemi, e crede in te al punto da spingerti in zone che hai paura di affrontare con altri registi»; ma può anche voler dire che «il primo giorno ti accorgi che tuo marito non ti ama più, il secondo che non ti ha mai amato, il terzo che ti odia… e da quel momento in poi diventa cattivo» (“Film Comment” n. 3, 1989).
Vedere Gena Rowlands recitare nei film di Cassavetes genera ancora oggi una specie di inquietudine, di paura. Esprimendosi come vuole lei, Rowlands sembra camminare su un filo, senza rete, senza protezione
Non sappiamo che cosa accadesse di preciso sui set, vediamo solo l’esito di un percorso creativo in cui scrittura, regia, invenzioni degli attori e dell’attrice, complicità e conflitti incrociati, generano qualcosa che sullo schermo non si era mai visto: una materia viva e cangiante di cui è impossibile decifrare la composizione. Un cinema fatto di attori – insieme a Rowlands, si ritrovano spesso Peter Falk, Ben Gazzara, Seymour Cassel – che sono innanzitutto presenze dirompenti, dotate di un’energia che talvolta tracima nella violenza, che sprofondano nella disperazione e nell’alcol per poi risorgere in un’euforia carnevalesca. Per Cassavetes, «riuscire a far esprimere gli altri come loro vogliono e non come voglio io: ecco l’unico talento che potrei vantare. Tutti i personaggi dei miei film si esprimono come vogliono loro, mai come avrei potuto volere io» (“Cahiers du cinéma”, ottobre 1968). Se così è, vedere Gena Rowlands recitare nei film di Cassavetes genera ancora oggi una specie di inquietudine, di paura. Esprimendosi come vuole lei, Rowlands sembra camminare su un filo, senza rete, senza protezione. Le sue donne sono spesso colte nel punto di rottura e di crisi – vivono con gli uomini relazioni conflittuali e ambigue, hanno matrimoni barcollanti o carriere esauste – eppure non assistiamo mai a una recitazione che è mera (e potenzialmente poco interessante) esposizione di sé, di un’identità messa a nudo. Così è per Jeannie, che si trova al centro di una serie di morbose attenzioni maschili, per Minnie, incastrata in una relazione clandestina, per Mabel moglie e madre trascurata ma spudoratamente vitale nella sua disperazione, per Myrtle, attrice che vede il tempo che scorre, sprofonda nell’alcol e nei labirinti di un delirio di sdoppiamento, per Gloria, che per salvare un bambino impugna la pistola e scappa per le strade di New York e infine per Sarah, donna instabile, reduce da un divorzio e in cerca di un nuovo equilibrio.
La crisi è il detonatore di percorsi espressivi totalmente personali sul piano della recitazione, in cui non ci sono né cliché né facili scorciatoie di mestiere. I movimenti di Rowlands – le lunghe mani affusolate che si muovono incessantemente, le braccia che si aprono, il modo in cui fuma o beve, la camminata instabile, gli sguardi indecifrabili e mutevoli, le cadute, le piccole smorfie e il naso che si arriccia, i momenti di improvvisa sospensione e di silenzio, ci paiono così autentici, “veri”, e al tempo stesso così insoliti, da sorprenderci sempre, a ogni visione. Sono estremamente reali eppure “fantastici”, così come lei può essere bellissima e glamorous, con occhiali scuri e abiti dal taglio impeccabile, oppure indossare un maglione, una gonna corta e calzette rosa, il trucco sbavato di lacrime e i capelli scompigliati. Le sequenze, spesso lunghe, in cui la vediamo recitare sono situazioni in evoluzione continua – azioni e reazioni filmate e recitate come se accadessero lì, davanti alla vorace cinepresa di Cassavetes: cambi di ritmo, accelerazioni o rallentamenti, senza una progressione drammatica prevedibile. Gena Rowlands, anche in virtù di quella bellezza cristallina e dirompente, è un punto di fuga, una calamita, una presenza concreta eppure vagamente aliena rispetto a tutto ciò che la circonda. Vederla sullo schermo genera inquietudine e piacere: il piacere condiviso con un’attrice che mentre recita scopre sempre qualcosa, che prova la stessa gioiosa ebbrezza di un danzatore o di un musicista nel momento in cui si abbandonano all’improvvisazione. Così peraltro accade in Opening Night, quando Rowlands e Cassavetes, sul palcoscenico, si lasciano alle spalle il copione e danno vita a una schermaglia tra attori geniale e irresistibile.
Nessuna ha saputo dare corpo così precisamente a una visione che sembra corrispondere al modo in cui le donne vedono e sentono se stesse
Tennessee Williams la stimava sopra ogni altro artista tra quelli che ci «hanno donato la propria anima». Non so dire se sia una questione di anima, ma certo è che nessuna attrice prima di lei ha saputo essere così generosa, esposta, autentica, in un equilibrio sempre precario tra intimità e ostensività, tra tecnica e istinto. Nessuna ha saputo dare corpo così precisamente a una visione che sembra corrispondere al modo in cui le donne vedono e sentono se stesse. Dimostrando così che il cinema non è quella conspiracy che fa sì che tu, fin dall’infanzia, creda a tutto e, soprattutto, creda negli ideali e nel grande amore – come dice Minnie all’amica sorseggiando vino rosso. Il cinema può essere un’altra cosa, e un’attrice bellissima e biondissima pure.