Domenica 4 agosto, durante la prova di ciclismo su strada per donne all’improvviso il telecronista disse qualcosa di assolutamente imprevedibile. I corridori (le atlete) erano ai piedi dell’ascesa di Montmartre per l’ultima delle tre volte prescritte: mancavano sei o sette chilometri all’arrivo, sotto la Tour Eiffel. Il telecronista disse: Ecco, proprio qui stiamo passando davanti alla casa dove è nato Laurent Fignon. Per me un nome magico, un nome della mia biografia.
Sono un appassionato di ciclismo. Ricordo come fosse ieri la vigilia della tappa del Giro d’Italia in cui per la prima volta nella storia della corsa i corridori avrebbero affrontato lo Stelvio, 2700 metri lungo strade circondate da neve. Era il 1953, avevo dieci anni. Fausto Coppi diceva alla radio che battere lo svizzero Hugo Koblet, con il vantaggio che aveva, sarebbe stato impossibile. Invece accadde: uno dei tanti miracoli che il ciclismo riserva ai suoi appassionati.
Laurent Fignon nacque sette anni dopo, nel 1960. Ma già a ventun anni era il campione che poco dopo divenne. Nel tempo in cui nessuno batteva Bernard Hinault, Fignon vinse il Tour del 1983. E lo vinse l’anno dopo, nel 1984. Correva con gli occhiali, lo chiamavano il Professore. Non so nulla di lui, se non quello che dopo conseguì – o gli accadde. Andai a cercarlo lungo le strade del Giro d’Italia del 1989. Quasi lo toccai. Non riuscii che a vederlo dal vivo, scalando le Tre Cime di Lavaredo o il terribile Mortirolo: la montagna che ai corridori mette più paura. Lo vedevo dall’alto: composto in sella, inflessibile, indomabile – imbattibile. Vinse quel Giro d’Italia. Ne fui felice. In quell’anno scrivevo: “Fu un lampo, la maglia gialla, i capelli biondi, chiarissimi – e il codino, la faccia già scura per il sole: una faccia dura nella parte superiore e troppo morbida nella bocca, concentrata, da adulto. In quella frazione di secondo in cui lo vidi allontanarsi Fignon aveva lo sguardo di uno che pensa e sa quello che vuole, benché non fosse pura e ottusa determinazione”. Questo accadeva a Catania, prima della partenza dell’intera corsa. Più tardi, alla fine: “Herrera scappava ancora, lo applaudii. Come non farlo? Poi con i suoi occhi, dal vivo, vidi qualcosa che non credevo possibile: Roche s’era staccato, Breuking e Hampsten salivano appaiati, lentissimamente, Fignon prima dell’ultima curva aveva allargato, lavorava sul cambio, probabilmente aveva sbagliato qualcosa, era rimasto un po’ indietro. Ma lo scatto con cui si riportò sui suoi due avversari diretti e la velocità con cui li precedette sotto il tragurdo fu inverosimile. A me (a quello spettatore) venne da piangere. Come fosse il San Tommaso più incredulo della storia avevo dovuto toccare con mano”.
Ma tutto doveva ancora succedere. Poco più di due mesi dopo, al Tour de France Fignon era primo in classifica. L’ultima tappa, una cronometro. Non si pensava vi fossero problemi. Invece, per la prima volta la vittoria toccò a un americano, a Greg LeMond. Nella classifica finale risultò che l’americano aveva battuto il francese per otto secondi: una differenza di tempo (un distacco) mai visto e mai più registrato.
LeMond mi piaceva, era un campione anche lui, la sua vittoria (come si capì negli anni successivi) non era stata casuale. Ma il mio dispiacere per quella ruota lenticolare che si vide per la prima volta, e al cui uso in parte si addebitò il vantaggio ottenuto dal campione americano, mi spinse in quel settembre a salire in macchina e ad andare fino a Chambéry per vedere da vicino Fignon ancora una volta. A Chambéry si disputava il campionato del Mondo: si percorre più volte la stessa strada, si tratta insomma di un circuito. Nell’ultimo giro, a non più di tre chilometri dall’arrivo, Fignon scattò e andò tutto solo verso il traguardo. Ma come spesso succede per questo tipo di imprese fu raggiunto a due o trecento metri dall’arrivo e fu battuto in volata – da chi se non da LeMond? Non ne sono certo, ma è come se lo avessi visto piangere – come era successo a me.
Poco meno di vent’anni dopo una stretta al cuore: si seppe che Fignon aveva un tumore al pancreas. Non ebbe scampo. Morì nel 2010, a cinquant’anni.
La ragione per cui scrivo è dunque (o tuttavia) legata non solo a questo triste ricordo. Quando ho sentito il nome di Fignon durante le Olimpiadi di Parigi e ho di nuovo pensato a lui, ho nello stesso tempo pensato ai campioni, al pari del Professore, morti troppo presto: morti tutte sconcertanti, inaudite, insopportabili. Anche i non appassionati sanno di Coppi, nato nel 1921 e morto nel 1960, a causa di un’infezione contratta in Africa che risparmiò il corridore francese Raphael Geminiani, come lui di ritorno dallo stesso viaggio. E tutti sanno di Marco Pantani: sanno di quanto fu resa travagliata la sua vita di atleta, di quanto discutibili (ancora oggi) furono le punizioni che gli vennero addebitate, di quanto straziante, solitaria e silenziosa fu la sua morte, vicino alla casa in cui era nato. Ma pochi ricordano la scomparsa prematura di un altro ciclista italiano, tra i pochissimi ad aver vinto un Tour, Gastone Nencini. Morì a cinquant’anni – come non ve ne fosse una ragione. I suoi concittadini toscani gli dedicarono il passo della Futa. Oggi è il suo piccolo monumento.
Morì a poco più di cinquant’anni anche Jacques Anquetil. Vinse cinque Tour de France. Sapevamo che dopo ogni corsa (questa era la voce) si sottoponeva ad una completa trasfusione del sangue. Ma è la causa cui si deve ascrivere la sua morte prematura? E che dire del francese che nella gloria lo aveva preceduto? Nessuno ricorda che Louison Bobet, anche lui, di anni non ne visse più di sessanta. Oltre a tante altre corse, Bobet di Tour de France ne aveva vinti tre, ma la sua vita fu ugualmente troppo breve.
Vi sono poi altre disgrazie (tali le ritengo) che è impossibile capire – o forse no, tutt’altro che impossibile. Il belga Jean-Pierre Monseré, campione del mondo nel 1970 a ventidue anni, nel 1971 durante una kermesse fu travolto e ucciso da un’auto del seguito uscita dalla fila che le spettava. Un altro belga, Stan Ockers, anch’egli campione del mondo, a Frascati nel 1955, durante una corsa su pista ad Anversa, cadde, si fratturò il cranio e morì. E i nostri due italiani? Quei due campioni scomparsi nei nostri anni? Michele Scarponi, “l’aquila di Filottrano”, aveva vinto il giro d’Italia nel 2011, ma sei anni dopo (aveva trentotto anni) mentre si allenava sulle strade di casa, fu travolto da un furgone guidato da un artigiano, alle otto di un mattino di aprile del 2017. E analoga sorte toccò ad uno dei più eroici ciclisti di tutti i tempi: Davide Rebellin non si voleva arrendere, voleva continuare a correre sempre, andò in gara in Polonia, in Croazia, in Turchia, in Iran, in Algeria. A cinquantun anni correva ancora, ma durante un allenamento fu investito da un camion il cui autista fuggì – senza prestargli soccorso.
Doloroso quanto e più di altri è il ricordo dello spagnolo Luis Ocaña, l’unico che era riuscito a battere Merckx. In una discesa dei Pirenei volò in fondo a un burrone, subito dopo una curva. Da quel giorno, anche se tornò a correre, non fu più lo stesso uomo. Si ritirò prematuramente. Andò a vivere in campagna e a quarantanove anni si uccise con un colpo di fucile. E come dovrò ricordare quell’inglese alla cui scomparsa tutti assistemmo in televisione? A soli trent’anni il campione del mondo, l’inglese Tommy Simpson, scalando il Mont Ventoux di colpo cadde rovinosamente dalla sua bicicletta e più non si rialzò. Quante volte sono andato sul Mont Ventoux non già per il nostro poeta ma per vedere e rivedere il profilo di Simpson inciso su quella roccia che del monte precede di poco la cima? Erano tempi antichi. Prima che la nostra Europa (il mondo dei ciclisti) fosse circondata dalle guerre – a nord-est e al di là del Mediterraneo – cinquant’anni fa pensavo: noi volentieri sposiamo la causa del vincitore, la causa del campione. Ma chi sposa davvero la causa del ribelle – dello sconfitto, dell’oppresso, dell’eroe?
Dopo una breve vacanza, come se di eroi avessimo nostalgia, come ne avessimo bisogno, è così che siamo costretti di nuovo a pensare.