Fumavo una sigaretta dopo l’altra, che è il modo di piangere degli adulti. Fumare era la prima cosa che facevo appena sveglio, e l’ultima prima di andare a dormire. Ammesso che in quello scampolo d’inverno veglia e sonno per me avessero ancora un senso. Mi aggiravo nel mondo con questi polmoni atterriti, terrosi, il fiato spezzato, una tambureggiante tachicardia. Ero precipitato in uno stato simile a causa del resto dell’umanità. Non si trattava di me, ma di loro. Mia madre era una statua di cera, con una mantellina sopra le spalle e lo sguardo fisso di fronte a un televisore sintonizzato su una rete generalista, la tovaglia di plastica a fiori, il telecomando accanto a un mucchietto di caramelle al rabarbaro: dacché ero nato, i nostri dialoghi giravano attorno al senso di colpa, soprattutto da quando erano diventati muti, una sequela di occhiatacce e mugugni. La mia compagna giaceva nel letto per la maggior parte del tempo: non era una lavativa, a letto ci lavorava. Faceva la cam-girl e doveva restarsene sdraiata a infilarsi peni di gomma nella vagina e nell’ano – s’incazzava se non usavo quei termini ginecologici, se avessi usato come mi era capitato di fare, mettiamo, “cazzo”, “fica” e “culo”, accusandomi di non saper distinguere il lavoro dalla vita, il piano professionale da quello privato -, e anche lì erano occhiatacce e mugugni. Avevo anche un amico, a dirla tutta, con cui apparentemente sarebbe stato semplice darsi un appuntamento. Se ne stava imbalsamato allo stesso tavolino dello stesso bar dai tempi dell’università, il suo immobilismo era stato prodigioso. Tutti avevano proseguito nella vita, ci si erano addentrati coi loro timori e le loro speranze, ma il mio amico no, non era voluto entrare, era rimasto all’ingresso, con i piedi sullo zerbino, senza decidersi mai. Finivo sempre col monologare, mi sembrava di parlare più a me stesso che a lui, perché in un dialogo gli aggiornamenti avrebbero dovuto essere reciproci, mentre nel nostro caso ero soltanto io che lo aggiornavo, lui faceva scena muta, o al massimo, manco a dirlo, mi indirizzava qualche occhiataccia e qualche mugugno. Chi altro c’era? Nessuno, se non la prossima sigaretta. E allora fumavo, sbuffando il fumo come una locomotiva a vapore, ciangottando bestemmie, sfinendomi di lacrime non cadute, essiccate negli occhi doloranti, sperando neanche troppo segretamente di ispessire le mie arterie, distruggere le mie coronarie, pervenire in tempi ragionevolmente brevi a un infarto o un ictus. Ero talmente scoraggiato che un vero suicidio non sarebbe stato alla mia portata.

Il primo giorno di primavera, spremendo da me stesso l’ultima stilla di speranza come si fa con il tubetto del dentifricio, volli rifare con temerarietà il giro dal principio. Andai da mia madre, la puzza di rabarbaro delle caramelle muffite accanto al telecomando mi stordì. Per di più, il volume assordante del programma generalista alla televisione copriva i miei tentativi di mettermi in contatto con lei. Le chiesi: “Mamma, mi ami?” e il programma generalista rispose: “Gira la ruota!”. La presi per le spalle, tentai di scrollarle di dosso l’apatia, ma poi smisi. A cosa sarebbe servito ricordarle che aveva lavorato per cinquant’anni al solo scopo di godersi la vecchiaia con suo marito – mio padre -, morto nello stesso anno della sua agognata pensione (fulminato nella vasca da bagno a causa del phon caduto accidentalmente nell’acqua piena di bolle profumate)? Entrai nella camera da letto dove la mia compagna si guadagnava da vivere, e una zaffata di crema lubrificante mi dette il capogiro. Vidi lo schermo del pc suddiviso in tante finestre virtuali da cui occhi sovraeccitati e membri di ogni foggia se la godevano, e lei stessa pareva attraversare un momento di assoluta contrizione che somigliava alla beatitudine, con un cazzo nella fica e un altro piantato nel culo. Le chiesi: “Va tutto bene? Devo estrarti i peni di lattice dalla vagina e dall’ano?”, ma lei si limitò a sbattere le palpebre, non volendo nella maniera più assoluta riscuotersi e tornare vigile. Mi recai dal mio amico, sapevo che ero giunto all’ultima spiaggia. In un modo fintamente empatico provai a ordinare un superalcolico: fare le stesse stupidaggini può riscaldare il cuore degli uomini. Mi disse: “Ciao”, e dalla sua bocca emanò un tanfo così nauseante di campari – come se nel suo cavo orale avesse potuto albergare tutto l’alcol trangugiato da quando, parecchi anni prima, si era seduto per la prima volta in quel bar – che fui costretto a scappare. Non mi trattenne, a dire la verità. I cubetti di ghiaccio del suo bicchiere erano più espressivi delle sue pupille. Che avrei fatto, l’indomani? Senza rendermene conto, imboccai la strada verso il cimitero. Poteva sembrare paradossale, ma non era una resa, bensì una sorta di bizzarra reazione. Se il mondo dei vivi era così inospitale, avrei provato con un altro regno. La primavera principiava senza novità significative: attraversai la città schivando, al solito, occhiatacce e mugugni. I panni stesi alle finestre erano i fantasmi dell’inverno catturati. Giunsi in prossimità dei cipressi che delimitavano quel posto ultimo. Alla vista delle prime tombe mi sentii già meglio. M’inoltrai nei sentieri disconnessi della cessazione in uno stato senz’altro febbrile, ma vigile, chiedendomi come mai i cimiteri non venissero presi d’assalto nei giorni festivi, al pari se non più dei centri commerciali: là dentro tutto si sospendeva, le fatiche dell’esistenza si relativizzavano. Spuntarono all’orizzonte degli sbuffi di fumo. Nei paraggi c’erano i forni per la cremazione e, accanto, una camera mortuaria incustodita con le bare ancora da chiudere, poggiate su dei carrelli. Mi misi a guardare i cadaveri con una morbosità crescente.

Quando vidi la ragazza coi capelli corvino e la pella di latte capii che il risarcimento tanto atteso stava per arrivare. Era morta, certo, indubbiamente morta, sennò non sarebbe stata dove stava, eppure ne ebbi un’impressione di fermento. Era il vento che, entrando nella camera aperta su due lati, creava un riscontro vivificante? Era il cinguettio degli uccelli che rincasavano nella fronda prospiciente alla camera? O ero io che, al cospetto di quella ragazza morta, mi stavo emozionando oltre ogni aspettativa? Mi guardai intorno con circospezione. Non c’era veramente nessuno. Le formiche camminavano sui pietroni della camera indisturbate. Si mosse, dico. Una volta non sarebbe bastato, per arrivare a dirlo. Era una morta peperina, non c’era che dire. Le presi una mano, le tenni i capelli, le sussurrai tutte le mie manie. Sarebbe stato sciocco non innamorarsene perdutamente. Finalmente una persona decente, ammisi, in cuor mio. Le sfiorai la camicetta di seta crema, all’altezza del seno, ma non ero soddisfatto. Andai giù, indossava dei pantaloni scuri, molto eleganti. Che assurdità che i morti, prima di bruciarli, li debbano vestire bene. A ogni modo i pantaloni avevano la zip. Le mutandine non c’erano. Forse ai morti non mettono la biancheria. Avrei dovuto consultare qualcuno delle Pompe Funebri, o un becchino. Ma ora la mia attenzione era tutta per lei. Dalla cerniera aperta veniva un profumo mieloso di primula che mi commosse. Lo inalai a pieni polmoni, come potesse essere l’antidoto al mio catarro metafisico. Infilai la mano nei pantaloni e la toccai. Una leggera ricrescita non mi impedì di notare che era morta con la fica rasata. Capii in un attimo cosa fare. Infilai un paio di dita perché volevo darle piacere. Dare piacere a una morta, sì. Ravanai delicatamente alla ricerca delle ghiandole di Bartolini, due piccole mandorle situate nel terzo inferiore delle grandi labbra, adibite alla secrezione del liquido vaginale. Me ne aveva parlato la mia compagna che, facendo il mestiere che fa, aveva dovuto sfiammarle prendendo un antibiotico. Mica le cercavo sul serio, e di sicuro non le trovai. Era per darsi un obiettivo illusorio, un Santo Graal per tenere a bada l’emozione. Volevo il segno supremo. Ci lavorai con dedizione e accanimento. Il carrello della bara si smosse. A un certo punto il vento cessò, e anche l’ultimo uccellino si ammutolì. La ragazza morta rise di cuore, lo giuro. E la mia vita si rimise in moto.
