Da un lato il vintage, dall’altro il senno di poi. Nel cinema e nelle serie tv contemporanee il passato è anzitutto questo. Repertorio di merci audiovisive, o luogo in cui proiettare preoccupazioni e mode del presente. Un processo di lunga durata, che si è perfezionato nei decenni e oggi ha l’aspetto di una bolla in cui il grande assente è il senso della storia. 

Il presupposto è quello che aveva notato decenni fa il teorico Fredric Jameson parlando del postmoderno: l’indebolimento della storicità, la difficoltà a cogliere i nessi di causa ed effetto tra un’epoca e le successive, il sostituirsi di categorie spaziali a categorie temporali. Oggi questa spazializzazione è sotto gli occhi di tutti: le epoche sono come un armadio quattro stagioni in cui di volta in volta il presente si abbiglia con le mode di un’epoca passata. Registi di rilievo esprimono in maniera molto evidente un immaginario vintage vago e sospeso: c’è il mondo di Luca Guadagnino, fino all’ultimo Queer, e ancor più esemplare è quello di Wes Anderson, che del proprio immaginario è ormai prigioniero. Non è un caso che la loro opera sia sfociata nel design: Anderson ha arredato il bar di Prada e i suoi film sono diventati coffee book, Guadagnino da anni ha uno studio di interior design. Ma è il cinema tutto a essere invaso dal fascino vago di una “passatezza” senza oggetto. Non di storia, si badi, ma di immagini delle immagini del passato. Il biopic, genere fiorentissimo, esalta soprattutto figure dei media: cantanti, sportivi, stilisti. Fino al passo finale in cui non si celebra più l’immagine che si fa merce, ma la merce che si fa immagine: l’inventore di un modello di Nike (Air), del mocio (Joy con Jennifer Lawrence) o dello smartphone (il recentissimo film Netflix Blackberry). Se il biopic diventa titanismo, la storia viene evocata come sinonimo di Grandezza e Tragedia, come se in essa il cinema si proiettasse alla ricerca di una dimensione più grande di sé in film gonfiatissimi, con personaggi come Oppenheimer. Oppure la Super Storia può essere adattata alle dimensioni di una casa di bambola, come in The Crown o Downton Abbey

In Italia, il modernariato trionfa soprattutto nei lavori ambientati negli anni Settanta, come luogo di suoni e colori quasi impermeabili a ogni osservazione critica

Una svolta in questo percorso di lunga durata è simboleggiata a cavallo del millennio da un regista, Quentin Tarantino, e poi da una serie, Mad Men

La storia è per Tarantino un repertorio di segni del passato da rimanipolare. Il fatto che possa suggerire soluzioni alternative alla storia fattuale (Hitler viene ucciso dai partigiani in Inglourious Basterds, la setta di Charles Manson sterminata in C’era una volta a… Hollywood) è la coerente conseguenza di un universo autonomo. Ma sono soprattutto le serie televisive post Mad Men il luogo in cui il passato come design trionfa. Perché lì esso ha una funzione precisa: sostituisce la regia. Il modernariato, i riferimenti rétro musicali e visivi fissano un universo che da solo può fornire le coordinate estetiche di un’operazione. Il design sostituisce lo stile e lo sguardo. Di quale passato si tratti, non importa. Possono essere gli anni Ottanta di Stranger Things o i Sessanta di Mrs. Maisel, o l’inizio del Novecento. L’importante è che ci sia dietro un immaginario mediale a cui attingere, e infatti il termine a cui si arriva è spesso l’Ottocento, in particolare l’epoca vittoriana in cui nascono fotografi e cinema: un film vintage sul Cinquecento non sarebbe possibile. 

In Italia, il modernariato trionfa soprattutto nei lavori ambientati negli anni Settanta, come luogo di suoni e colori quasi impermeabili a ogni osservazione critica. Scatta una specie di pilota automatico, di zampe d’elefante, utilitarie, camicie colorate, molotov, canzoni d’epoca e droga, che i registi più seri si sforzano di fronteggiare. Tutto un modernariato è poi il cinema su Cosa Nostra, con occhialoni fumé e auto d’epoca che esplodono.

Emiliano morreale,cinema vintage,serie tv vintage,cinema e moda,serie tv e moda,guadagnino moda,guadagnino prada,guadagnino design,cinema design,cinema impegnato,cinema e fascismo,l'arte della gioia golino,l'arte della gioia serie
Generazione Romantica di Jia Zhangke

Il passato non è una terra straniera da esplorare, ma un rifugio familiare, che conosciamo dai media e dalla pubblicità. Nel mio luogo di lavoro, la Facoltà di Lettere della Sapienza, quasi ogni mese capita di fare un piccolo viaggio nel tempo. Sulla scalinata dell’edificio gli studenti sono improvvisamente vestiti con camicie floreali, basette, capelli lunghi e pantaloni a zampa d’elefante. E’ segno che stanno girando un film o una serie sugli anni ‘70: li girano tutti lì, su quella scalinata. Nella mia città natale, invece, Bagheria vicino a Palermo, un luogo sembra essere il nuovo simbolo rassicurante di ogni passato stereotipato in un perverso intreccio con la letteratura: Villa Valguarnera (per intenderci, quella della Marianna Ucria di Dacia Maraini) che, dopo esser stata scenario di uno spot di Dolce e Gabbana con Sophia Loren, si è reincarnata come villa di una perfida Barbara Alberti omofoba in un film di Ozpetek, villa della fiction L’arte della gioia da Goliarda Sapienza e poi, inevitabilmente, magione del Gattopardo Netflix.

In fondo non è molto diverso l’altro atteggiamento verso il passato, la brutale proiezione su di esso dell’agenda ideologica attuale. I racconti artistici del passato sono sempre stati un discorso sul presente: ma il problema è quando il discorso sul passato va insieme all’assenza di senso della storia, e la storia non è causa ma effetto del nostro agire, non è ciò che ci ha prodotto ma terra vergine da colonizzare con il senno del poi. Perché, ci dicono film e serie (e anzitutto libri, ahimè), noi conosciamo il bene e il male: e per “noi” si intende un noi aperto, inclusivo, un tempo si sarebbe detto: benpensante. “Noi” capiamo come si pensava e si agiva nel passato, ma soprattutto come era giusto che si pensasse e agisse: ossia come è giusto oggi. Di più: le minoranze, non è possibile che non avessero la coscienza attuale (che non è solo attuale ma giusta, e perciò eterna): e dunque se donne o neri sono minoranza nella storia delle arti e delle letterature la colpa non è dell’oppressione storica nonostante cui pochissime e pochissimi riuscivano ad agire, ma della perfida storiografia successiva che li ha trascurati.

Dietro questa idea di rendere giustizia al passato modificandolo c’è in realtà una violenza, un disprezzo, questo sì, neocoloniale, per la realtà delle vite passate

A volte lo spirito è greve, a volte ludico. Ecco dunque serie su Sherlock Holmes con un Watson di colore o donna asiatica, o Bridgerton che arretra cronologicamente all’epoca dei romanzi di Jane Austen immaginando una corte con neri e mulatti (lì vediamo vintage e politicamente corretto nascere gemelli, mano nella mano), o film su episodi dell’emancipazione degli afroamericani (tradotti da noi con titoli simili: Il diritto di opporsiIl diritto di contare). In Italia il passato viene abitato da portavoce delle istanze odierne, senza se e senza ma (dal film Gloria! alla fiction La legge di Lidia Poët, ma anche C’è ancora domani, fino al furbacchione Özpetek col suo catalogo di donne sventurate). 

Dietro questa idea di rendere giustizia al passato “rileggendolo con gli occhi del presente” c’è in realtà una violenza, un disprezzo, questo sì, neocoloniale, per la realtà delle vite passate. In pochi cercano una visione della storia che non sia né tradizionale né meccanica, fuori dalla nostalgia vintage e dall’uso edificante. Sono riletture rispettose del passato (Berlinguer) o film come Vermiglio di Maura Delpero, il cui punto di forza era proprio la capacità di  farci entrare in un mondo imparagonabile al nostro ma da cui proveniamo. L’esempio più significativo viene però dalla lontana Cina, il centro del mondo: lo straordinario Generazione romantica di Jia Zhangke, che racconta la storia del suo paese negli ultimi vent’anni attraverso un esile filo narrativo, componendolo con le immagini da lui stesso girate nel corso dei decenni. Le opere più ambiziose e felici, da sempre, non propongono una rilettura della storia quanto una filosofi a della storia, una nozione dolorosa del suo senso o non-senso: questo ci dà l’arte, questo danno Guerra e paceLa Storia o Barry Lyndon. E la storia, in un’epoca che la nega e la addomestica, se evocata con cura e passione appare un luogo che non ci consola ma ci turba, in cui magari possono ricomparire i fantasmi di concetti dimenticati: non la discriminazione, la vittima, l’“agentività”, ma l’ideologia, gli oppressi, la rivolta.