«Sapete che farò?» sbotta la voce di Patti Smith al minuto 9.50 del documentario di Steven Sebring. «Continuerò a mettere roba in casa (…) Costruirò un muro di roba».
Dopo dieci anni di riprese, la “madrina del punk” non ne può più: è in sciopero; non lascerà l’angolo del suo appartamento finché non sarà finito il film – che poi è il noto Patti Smith: Dream of Life, premiato nel 2008 al Sundance Film Festival, la più importante rassegna di cinema indipendente degli Stati Uniti.
Mentre va avanti la tirata, la macchina da presa passa in rassegna gli oggetti che popolano la stanza – dal manico di una chitarra a vecchi giornali, su uno si riconosce il logo del leggendario club CBGB; dalle foto ai libri. Patti li elenca come mattoni di un’immaginaria cinta difensiva, e invece sono proprio questi gli elementi con cui ci ha abituato a costruire una connessione con lei: «Le poesie di Walt Whitman, i libri di William Blake, Mickey Spillane, Arthur Rimbaud, cimeli d’infanzia, cibo per gatti, medicinali contro i parassiti… Non penso di avere i parassiti».
Ruvidamente schietta, anche tenera, ironica, evocatrice sempre: la “poetessa del rock” non può fare a meno di creare un legame, di farci entrare in un mondo che è autenticamente suo ma che d’improvviso diventa anche nostro. Uno spazio condiviso – di parole, di musica, di immagini. E oggi, a quasi mezzo secolo dal folgorante esordio di Horses, anche di tempo.
365 foto per 366 giorni di un anno bisestile, ciascuna accompagnata da un pensiero, un commento, un ricordo, un augurio
A Book of Days – uscito ora per Bompiani nella traduzione di Tiziana Lo Porto – è un’opera, o meglio, un’operazione creativa che scaturisce da tutto questo, lo somma e lo ripensa in modo nuovo. Patti ci propone qui un calendario personale, a tratti intimo, eppure collettivo: 365 foto per 366 giorni di un anno bisestile, ciascuna accompagnata da un pensiero, un commento, un ricordo, un augurio. Questo “libro dei giorni” prende spunto, infatti, dalla pagina Instagram dell’artista – thisispattismith, 1,2 milioni di follower – e ne mantiene il carattere: breve, episodico, rabdomantico. Ma vive a sé, come “libro” appunto, entrando a pieno titolo nella serie degli ultimi volumi pubblicati dall’artista: dei memoir corredati da fotografie.
Si sfogliano queste pagine come si mette su un disco, abbandonandosi al ritmo. Ci si perde tra vecchie foto d’archivio, entrate nella storia della cultura americana: una (scattata da Allen Ginsberg) mostra Patti accanto al maestro d’elezione William Burroughs, un’altra tra il pianista Richard Sohl e il pittore Carl Apfelschnitt, un’altra ancora con l’angelo ribelle della fotografia Robert Mapplethorpe quando i due erano «just kids», solo dei ragazzini con pochi soldi e ambizioni sconfinate. Un pantheon personale, eretto anche per sé stessa – sempre fedele all’arte e al proprio vissuto.
Dopo la morte nel 1994 di Fred Sonic Smith, l’amore di una vita, Patti si rivolge più intensamente alla fotografia. Nascono così le sue Polaroid realizzate con una Land 250, spesso protagoniste di mostre in questi anni. Anch’esse entrano nel libro: Smith le ha definite altrove «relics of my life» e «souvenirs of my wandering», reliquie della sua vita e ricordi dei suoi vagabondaggi. In A Book of Days chiosa: «Non c’è niente che sia davvero come l’atmosfera della vecchia pellicola Polaroid. Tranne forse una poesia, una frase musicale, o una foresta nella nebbia». E infatti nebbiose sono molte di queste istantanee, con le loro sfocature, in bianco e nero, che hanno catturato luoghi e cose come fantasmi – fantasmatica ormai è la stessa fotografia Polaroid, emblema di un’epoca trascorsa.

Si mischiano con le foto più recenti, qualcuna pescata dal web, altre scattate da amici oppure fatte da Patti stessa col cellulare, a fissare lo scorrere di una quotidianità in cui si dimora nei bar di New York o di Parigi, una tazza di caffè nero e il taccuino degli appunti sempre a portata di mano.
Ci sono i personaggi illustri cari all’artista – con i loro volti, le loro case o le loro tombe, meta di religiosi pellegrinaggi – festeggiati sempre nel giorno del loro compleanno. Un omaggio agli idoli da venerare e a cui rubare. Come l’icona Rimbaud. L’ha ricordato bene Claudia Bonadonna nella sua sentita biografia che attraversa i testi delle canzoni, Patti Smith. Because the Night (Arcana 2011): «“Il poeta è veramente un ladro di fuoco”, scrive Rimbaud a Paul Demeny nella celebre Lettera del Veggente, e lei lo prende in parola». Prende il mito e prende le parole.
Patti può ancora intonare senza tema di smentita la canzone: “I haven’t fucked much with the past, but I’ve fucked plenty with the future“
Il rapporto col passato – che sia quello di un’avanguardia codificata, o quello recentissimo – è cruciale nella creazione di Patti, come si sa fin dal primo successo: Gloria è messo assieme fondendo una propria poesia con la radicale reinterpretazione di un brano dei Them del decennio precedente. Un processo che si potrebbe chiamare “vintage del futuro”: un rifarsi al passato per attualizzarlo continuamente. E così, nonostante i molti riferimenti e la lunga fedeltà ai modelli, Patti può ancora intonare senza tema di smentita la canzone: I haven’t fucked much with the past, but I’ve fucked plenty with the future.
E ci sono gli oggetti, come li abbiamo intravisti nel documentario. Disposti su altarini, sono i correlativi di affetti, gratitudini, nostalgie; ma sono anche presenze con cui parlare. Ad esempio, gli stivali da cowboy: «Una sera sembrava che mi esortassero a mollare il mio lavoro e ripartire. Li ho messi, mi sono seduta alla scrivania e ho scritto tutta la notte: un’avventura più che sufficiente».
Oppure i ricordi di viaggio, oggetti immortalati per il mondo, tra cui l’orso impagliato che veglia su Casa Tolstoj a Mosca. Come spiega la didascalia, l’orso tiene un piattino su cui gli ospiti lasciavano il biglietto da visita quando non trovavano il padrone di casa. È una fotografia curiosa, che era già apparsa in un altro testo autobiografico di Smith, M Train (Bompiani 2021, trad. it. Tiziana Lo Porto). Lì era la metafora del suo stesso fare artistico, una scrittura persa tra le tante parole altrui: «Alla fine», si chiede Patti, «il lettore conosce me? Vorrebbe? Posso solo augurarmelo, mentre offro il mio mondo su un piatto pieno d’allusioni». E il biglietto da visita per entrarci.

La fotografia chiama il racconto. Perché anche tra tante immagini – lo dimostra chiaramente A Book of Days pur nella stringatezza dei post– le foto di Smith (fatte o scelte) rimandano a parole: potenzialmente, fanno risuonare versi, attivano narrazioni, ispirano riflessioni, conducono storie. È ancora una volta la scrittura l’orizzonte ultimo, la cifra. Lei è e resta una poetessa.
La poetessa Patti Smith incarna la quintessenza del performer: la sua arte ci fa capire intuitivamente che si possono “fare cose con le parole”, che pronunciando o cantando si compiono degli “atti”, con effetti anche dirompenti – come quando, nella lontana primavera newyorkese del ’75, giovane spiantata iniziò a travolgere il pubblico con i suoi versi in veste rock’n’roll.
Smith non ha mai dimenticato che dall’altra parte del palco – e oggi dello schermo – c’è un destinatario: da ammaliare o irritare, da sfidare o emozionare
Postare adesso su Instagram è solo una modalità diversa di continuare a esibirsi, agendo e coinvolgendo, trascinandoci in quel suo spazio condiviso. Perché Smith non ha mai dimenticato che dall’altra parte del palco – e oggi dello schermo – c’è un destinatario: da ammaliare o irritare, da sfidare o emozionare; in ogni caso, con cui comunicare. La sua partecipazione ai social network e alle logiche dell’“immagine condivisa” – come viene infatti chiamata – non è dunque estemporanea né vacua: è una performance, come le ha sempre fatte, e si travasa peraltro nelle sue più recenti esibizioni musicali.
Non sarà un caso allora che la prima immagine pubblicata sul suo account sia stata una foto del palmo della sua mano: «Una corrispondenza diretta tra fantasia e messa in atto», spiega nella premessa al libro. «L’energia curativa viene incanalata attraverso le nostre mani. Tendiamo una mano in segno di saluto e servizio; solleviamo una mano come promessa». Quell’immagine semplicemente ribadisce: sono una taumaturga e una sciamana del XXI secolo, che trasforma le parole in azioni. Battezza, giura, promette. E talvolta, col suo incantesimo, perfino guarisce.
Del resto, è così che su di lei da sempre agiscono gli scrittori amati, di ieri e di oggi: la poesia, l’arte è un’azione che propaga un’altra azione. In Devotion. Perché scrivo (Bompiani 2018, trad. it. Tiziana Lo Porto) Smith mette a fuoco bene quel sentimento: «Quella pulsione che mi impedisce di arrendermi del tutto a un’opera d’arte, portandomi dai corridoi di un museo preferito al mio stesso tavolo da lavoro. Spingendomi a chiudere i Canti dell’innocenza per sperimentare, come faceva Blake, una sbirciata al divino che potrebbe diventare anch’essa una poesia. È questo il potere decisivo di un’opera singolare: una chiamata all’azione. E io, di volta in volta, sono sopraffatta dall’arroganza del credere di essere in grado di rispondere a quella chiamata».
Qui sta il segreto dell’intramontabile freschezza di Patti Smith: nel suo continuo slancio all’azione/creazione. Lo stesso che, mi sembra, pretende anche da noi. E che ci fa stare connessi.
