Sebbene si svolgano negli stessi luoghi e secondo modalità simili a quelle dei Giochi Olimpici, le Paralimpiadi indicano un orizzonte di senso alquanto diverso, e per certi versi antitetico. I risultati sono meno prevedibili, i record saltano con più facilità, il ventaglio anagrafico dei partecipanti è più ampio, gli eventi riservano più sorprese, il tutto appare più elastico e vario. La disabilità, per quanto si cerchi di standardizzarla, si manifesta in maniere troppo diverse per piegarla a parametri perfettamente oggettivi. Al contrario, lo sport diciamo ufficiale è una sorta di opera collettiva e sistematica di standardizzazione. Nelle Olimpiadi vige sottotraccia un principio assolutista: disciplinamento impeccabile dei corpi e delle menti, in nome di un principio di massima efficienza fisiologica e di obbedienza all’imperativo prestazionale. Lo scrittore francese Georges Perec, nel suo W o il ricordo d’infanzia (1975), ha immaginato una società basata su un’organizzazione di tipo sportivo che lentamente si trasforma in un inferno concentrazionario: l’ideale olimpionico trasmuta in quello nazista. Non a caso le dittature hanno sempre cavalcato il modello agonistico, facendone quasi un biglietto da visita, segno della propria forza non solo fisica e bellica ma soprattutto mentale, di inquadramento e organizzazione sociale. Gli inglesi dell’Ottocento, quanto a loro, introducevano lo sport nelle colonie con lo scopo di neutralizzare le pulsioni bellicose delle popolazioni autoctone,dirigendole in un contesto controllato. La ribellione, così facendo, si estenuava sul campo di gioco.
Allenamenti, impegno, sacrificio dell’individuo, tecnica, metodica, protocolli medici, tutto nell’atletismo olimpionico è amministrato e pianificato in nome del risultato, della quantificazione, dell’abbattimento progressivo e idealmente infinito del primato. Solo il più forte trionferà: a ben vedere siamo ancora interamente in uno schema naturalistico, la legge della giungla integrata nella civiltà, o almeno in un certo tipo di civiltà.
Nelle Paralimpiadi tutto questo sembra subire una decisa smentita. Ogni atleta non può che essere unico nonostante gli sforzi in direzione contraria: ogni corpo disabile è disabile a modo suo. C’è una tensione molto più forte
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