E se vi dicessi che Leopardi era un millennial? 

Ok boomer, dimostralo.

Bene. Immaginiamolo a venticinque anni, curvo sui fogli delle prime Operette morali, in un giorno di febbraio del 1824. È uno di quei pomeriggi in cui la natura ci appare vagamente sadica, scrupolosa come un mal di pancia. A Recanati fa un freddo cane. Leopardi è tappato in casa (non che sia facile beccarlo altrove): non ha Google, non ha Wikipedia, ma possiede un accesso privilegiato al sapere del suo tempo, la biblioteca messa insieme dal padre Monaldo – uno che accumula libri senza troppo criterio, comprandoli a peso come certi robivecchi che svuotano cantine e soffitte in malora, guidato dall’idea che «niente è inutile in una biblioteca». E cominciamo bene.

In ogni caso, parliamo di dodicimila volumi, che per l’epoca sono un patrimonio privato formidabile. Leopardi non è un nativo digitale ma vive immerso fino ai capelli in quella costellazione di libri. È la sua Rete, la sua Internet – in termini sentimentali: una gioia e una dipendenza tossica. 

Dite che esagero? Mica tanto. Definire Leopardi venticinquenne come un millennial non è meno improbabile che chiamarlo «malato» o «depresso», che sono facili arzigogoli tra medicina e psicologia. Le suggestioni, anche quelle più vivaci, rimangono suggestioni: durano il tempo che ci ostiniamo a concedergli. 

È tutta suggestione la miniserie Rai Leopardi. Il poeta dell’infinito, per la regia di Sergio Rubini (con la consulenza letteraria di Davide Rondoni). Il racconto, “liberamente ispirato” alla vita di Leopardi, dovrebbe

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