Cos’è che rende un artista tale, il genio o la sregolatezza? Difficile dirlo nel caso di Davide Panizza in arte Pop X. Personaggio che nasce in Trentino e che da musicista di nicchia, particolarmente “ai limiti”, fonda il suo progetto nel 2005. Nel 2017 riesce miracolosamente ad arrivare alle masse sull’onda del fenomeno del nuovo indie italiano. Definire quello che fa Panizza è quantomeno difficile: testi grottesco-surreali caratterizzati da una “coprolalia poetica” ricca di metasignificati, la sua musica è un bignè nel cui ripieno troviamo tanto il pop italiano tipico, basato sulla melodia, quanto una sperimentazione sonora/tecnologica che si misura anche su una perizia tecnica notevole e un’attenzione sia per l’elettronica ( maranza o meno) che per le realtà etniche (usate in modo efficacemente arbitrario), cucite insieme da un minimo comun denominatore che è quello di un nichilismo che si prende “seriamente” gioco di tutto. Era da tanto che lo inseguivamo per «Snaporaz», e finalmente riusciamo a ottenere un’intervista “sbilenca” come da tradizione, approfittando di un momento di pausa del nostro, impegnato nella realizzazione del suo nuovo album: per capire in che stato di salute versa il progetto.

Ciao Davide, che stai facendo ultimamente? Cosa bolle in pentola?

Ho isolato termicamente il sottotetto e ivi ho registrato e prodotto insieme al mio sodale Walter Biondani i brani del nuovo disco, sono inoltre in attesa dell’uscita nei cinema di Troppo Azzurro un morbifero film di Filippo Barbagallo il quale mi ha coinvolto per la realizzazione delle musiche.

 Di che disco si tratta? Puoi darci delle anticipazioni ghiotte? 

Ancora è presto per parlarne, siamo ancora in una fase di mastering: nel mio caso questa fase particolare dura molti mesi poiché non è facile trovare il suono giusto. 

L’anno scorso è uscito il tuo ultimo album Anal House e pare sia stato il tuo primo disco in vinile. Perché questo? La musica ivi contenuta si prestava maggiormente a questo formato?

Essendo un disco il cui concept è legato alla musica house, ho deciso di stamparlo in vinile per poterlo far suonare a mio fratello che è un deejay di vinili ma, ahimè, non credo lo abbia mai suonato. 

E perché non l’hai fatto prima? 

La musica che ho prodotto prima mi sembrava musica da cd o da streaming, non da vinile.

Anal House ha avuto il successo che speravi? O del successo non ti frega nulla? Bomba Dischi ancora ti tollera nella tua imprevedibilità?

Non bisogna perder tempo dietro allo “sperare nel successo”, bisogna mettere le mani in pasta e darci dentro con i software mirmecofili per la produzione e per la sintesi del suono. Nel caso di Anal House ho utilizzato Max Msp (un linguaggio di programmazione visiva per musica e contenuti multimediali) che non avevo mai usato in modo così metempirico. Con Bomba Dischi c’è un buon rapporto nonostante siano passati diversi anni dal primo disco insieme. 

A questo proposito: sei stranamente diventato, da scheggia impazzita, un mito per il pubblico dell’itpop, e a questo genere ingiustamente associato. Come è stato possibile tutto questo?

 “Un mito per il pubico dell’itpop” non credo; mi lusinghi…

Be’ direi che è abbastanza vero, ma per quanto mi riguarda non c’entri davvero un cazzo con quel genere. Per cui volevo capire se tu ti ci senti affine oppure no.

Assolutamente non mi sento affine, per niente, non ho niente da spartire, anzi ti dirò che è deprimente essere accostato a questo “genere”. Ma poi non credo sia un genere, tutt’al più un sub genere epatico, forse un WC. 

Ma partiamo dall’inizio della tua fulgida carriera: quali sono le tue prime esperienze musicali? La leggenda dice che facevi ska.

Certo, suonavo con Walter Biondani nei Gengyskà, una band di Trento: ancora adesso la musica ska è un riferimento per me, ha qualcosa di spensierato che mi colpisce molto, più che altro idealmente poiché non ascolto musica ska. 

E cosa ascolti di solito? 

Attualmente ascolto:

Kris Davis Massive Threads, Majid Jordan Waves of Blue, qualche canzone dei The 1975, in particolare Somebody Else, Dagny Somebody, Kacey Musgraves Deeper Well, una canzone dei SUPER Hi Told You so, Ava Max One of usParsifal di Christian Löffler, J’attends en bas di Chaton, Alyosha di Susanne Sundfor. 

A proposito di influenze musicalmente ideali, quando abbiamo fatto il talk al MACRO di Roma, un po’ di anni fa, mi dicesti che avevi avuto anche un’esperienza col produttore di Cristina D’Avena, e mi raccontasti un simpatico aneddoto, te lo ricordi?

Ricordo che nel 2006-7, dopo aver frequentato la scuola di alto perfezionamento di Saluzzo (Cn), indirizzo Tecnico di musica interattiva per le arti digitali, finii per fare uno stage presso il Nikto Studio – non credo ci sia più traccia di questo posto nemmeno online. In questo studio che si trovava in zona Romolo a Milano, un posto che all’epoca assomigliava alle favelas di Rio De Janeiro – i semafori erano frequentati da ambulanti, in particolare uno con le ginocchia “rovesce” che io battezzai “Il capro”. Ecco, questo studio, il cui direttore era Dino Ceglie (che saluto, sempre che sia ancora di questo mondo), era frequentato da Cristina D’Avena e da sua sorella che era la sua manager, le quali si portavano in studio un eunuco che le teneva i vestiti e le mutande che si cambiava dopo ogni ritornello. Io sbirciavo le sessioni di registrazione di Cristina D’Avena e devo dire che ho imparato molto. Ho imparato a reggere il megafono nel modo corretto ma soprattutto ho imparato che nella vita non bisogna avere pregiudizi. Non sempre quantomeno. L’aneddoto non me lo ricordo… 

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© Danilo Samà

Mi raccontasti che il fonico della D’Avena missava i suoi pezzi a cannone e trovavi questa cosa fuori dalla grazia della Madonna.

Ah be’, certo… come dimenticare quelle mattinate al Nikto Studio nel 2007 in compagnia del “produttore” Dino Ceglie e del suo assistente “Lorenzo”? Ho passato così tanto tempo sul banco accanto a loro assistendo passivamente alle sessioni di mix a volumi disumani di Cristina D’Avena che mi uscivano le feci dalle orecchie. Alla fine di ogni sessione (duravano dalla due alle tre ore) dovevo andare in bagno a pulirmi i timpani con la carta igienica. 

Non molti forse sanno che tu eri parte integrante della scena 8bit / Micromusic italiana e abbiamo spesso condiviso palchi e situazioni. Quando uscì Io centro con i missili eri sulla stessa linea di Cobol Pongide o di Flavio, facevi cantautorato 8bit con la differenza che eri molto più demenziale. Cosa ricordi di quel felice periodo?

Ricordo tanta miseria e tanta fame, un coacervo di momenti difficili e pochi momenti spensierati, tante incertezze, tanti dubbi sul mio futuro prossimo.

Io invece mi ricordo che a un concerto in spiaggia, credo a Pesaro (e ricordiamo Mirkone dei Camillas con grande commozione), mentre cantavi cominciasti a correre con un bastone in mano per chilometri mentre la base ancora andava e ritornasti credo quindici minuti più tardi, dopo essere diventato un puntino all’orizzonte…

Sì, mi ricordo anch’io, ma ti assicuro che la depressione generata dalle serate, la depressione di dover rincorrere gli organizzatori delle serate per farsi dare cinquanta euro, quella è un ricordo ben più indelebile. 

Non molti sanno che tu hai anche un alter ego, ovvero Re Artù, che forse è la tua più grande incarnazione. Lo dico ovviamente perché il disco l’ho fatto uscire io con la mia net label Selva Elettrica nel 2013, prima ancora che uscisse un disco “ufficiale” di Pop X, ma la conferma che sia un capolavoro l’abbiamo da persone che se ne intendono, come Giacomo Laser. Come mai l’hai abbandonato per strada?

Sei l’unico che mi ha incaricato di portare avanti questo alter ego, non ho mai capito che cosa fosse veramente il Re Artù a cui ti riferisci, forse era la mia parte che compone musica strumentale? 

Io credo anche la tua parte che scrive musica hip hop minimale. Ti piace quel tipo di espressione artistica? 

Boh, se per hip hop minimale intendi quando con Walter ci mettevamo con una boccia di vino a fare rime trans accompagnati da percussioni rudimentali, sì, mi piace. 

Non molti sanno che sei anche un padre di famiglia, con ben due figli. Come fai a conciliare la tua follia di artista anale con una dimensione domestica che necessita di una certa concentrazione? Quanto della tua esperienza di papà entra nella tua musica? 

In qualche modo la concilio, non ho una ricetta, vivo e vegeto e vado avanti come un anal panzer.

Sì, anche perché i tuoi figli in realtà sono tre. Ma ti ispirano nelle tue composizioni?

Non saprei. Diciamo che rendono la mia vita più intrigante e gioiosa.

In effetti la tua musica è puro gioco: nulla è serio ma nulla è faceto. La sperimentazione c’è ma non rompe i maroni come al solito. Ci sono un sacco di oscenità politically incorrect ma alla fine risultano solo un modo per scardinarne il significato, uno sfogo nonsense tipico della purezza infantile. Tu ne hai consapevolezza o non te ne fotte un cazzo?

La seconda. 

E come mai in tempi di woke nessuno ti denuncia? Se lo facessero forse te ne fregherebbe? 

Non c’è motivo di denunziarmi, credo onestamente che non ho mai detto niente che potesse urtare od offendere. 

Ci sono degli elementi secondo me molto importanti nel tuo stile: il primo è l’eclettismo che non tiene conto di altro che del dire quello che vuoi sempre e comunque. La seconda è l’uso di aggeggi tecnici usati in maniera non ortodossa, ad esempio l’autotune di cui sei un pioniere dell’uso a culo. È vero che una volta un fonico ti disse “togli l’effetto alla voce” credendo che ci fosse un pitch e invece era la tua voce normale?

Sì, ma in realtà è una cosa che succede… magari quando incontro qualcuno col quale non ho mai parlato. A volte alcuni mi dicono “ah ma davvero è la tua voce così?”, sai, come se avessi l’autotune o il vocoder e degli effetti integrati all’interno della mia cavità orale…

Altra innovazione è l’inserimento della tastiera araba che in effetti in Italia sei uno dei pochi ad aver usato senza timore di appropriazione culturale indebita. Cosa ti spinge a farne un certo utilizzo? L’istinto puro? 

Mi spinge una certa attitudine alla ricerca e alla voglia di non stupirmi mai di niente, se non di aspetti essenziali della vita dell’uomo, ovvero di vedere i miei figli crescere, superare le difficoltà della vita. 

Sagge parole, ma come ti è venuto in mente di comprare la tastiera araba? 

Non ho mai avuto una tastiera araba, solamente in alcuni brani forse c’è qualche intervallo che ti ricorda qualche scala araba, ma non ho mai avuto tastiere arabe, l’unica tastiera che ho comprato è una Yamaha PSR 900.

Altra cosa importante è la dimensione live, dove Pop X dà il meglio: non ci troviamo di fronte a un concerto ma a una performance e credo che questo abbia sconvolto le menti del popolo itpop, abituato a roba molto più tradizionale. Una volta a Venezia avete addirittura sfidato il tabù di dipingersi la faccia di nero. Come elabori i tuoi show?

Li elaboro pensandoci molto ma poi cercando di arrivare all’essenziale in modo istintivo, di solito mi confronto molto su cosa mi piacerebbe fare eccetera. Ma alla fine faccio quello che mi salta in mente poco prima di salire sul palco, per me conta molto l’aspetto estetico dei testi, dei suoni della musica che produco. 

La domanda che sorge in molti è: ma Pop X è una band o un progetto solista? Sei come Trent Reznor dei Nine Inch Nails?

È nato come un duo, io e Walter, si è poi sviluppato in un progetto solista che si avvale di molti collaboratori che partecipano più o meno attivamente al progetto.

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© Federico Vinci

Parliamo dei tuoi progetti alternativi con amici che abbiamo in comune: con Calcutta, Giacomo Laser, e via discorrendo. Qual è quello che ti ha dato maggiori soddisfazioni? 

Soddisfazioni tutti, ancora oggi mi piacerebbe poter continuare a collaborarci, sia con Calcutta, con il quale in realtà ho avuto occasione di condividere sessioni di creazione di canzoni anche piuttosto recentemente come Friuilli, sia con Giacomo Laser, con il quale ho collaborato per il vinile sulle canzonette scritte da Pasolini e prodotto da Bomba Dischi in collaborazione con Gucci. 

Tornando alle tue radici ska, tu hai pubblicato un disco diciamo reggae, Notihng hill, smontandone in qualche modo il senso, cosa che facevano anche i primi cantanti pop italiani quando cercavano di importarlo in Italia. Quali sono i brani italiani di quel tipo che ti hanno ispirato?

Onestamente non mi sono mai riferito a qualcuno in particolare, avevo degli [sic] nuovi strumenti, una batteria elettronica e un synth, e volevo usarli, nell’usarli è venuta fuori questa sonorità del disco. 

Dice Wikipedia che quel disco non ha venduto niente. Per me è forse il tuo disco migliore. Perché secondo te la gente non capisce un cazzo?

La maggior parte delle genti non si preoccupa attivamente di musica, ma ascolta ciò che gli viene propinato: è così perché c’è un sistema di ascolto legato alle playlist eccetera. Spotify ti fa credere di essere il miglior modo per venire in contatto con musiche sconosciute, e così è anche con i film: ti dicono scaricati Netflix, qui dentro troverai tutto. In realtà queste piattaforme nascono per “farti trovare il piatto pronto”. Cercare musica nuova, o nuovi film, per me è qualcosa di più divertente di accedere a una piattaforma, è soprattutto andare a trovare amici, confrontarsi con loro e scoprire nuovi ascolti, oppure leggere un libro e scoprire nuovi artisti; è comunque qualcosa di attivo, mentre le piattaforme sono passive – anche se ti illudono di una ricerca attiva in realtà quello che contengono è ciò che vogliono mostrarti e che alla fine credo per pigrizia finirai per guardarti o ascoltarti.

Parliamo di collaborazioni internazionali: come è stato suonare con i Phoenix a Parigi? 

Ci sta, una bella venue

Sì, grazie al cazzo, ma dico in generale che feedback hai avuto dai francesi? Hai stretto amicizia con i ragazzi della band? Ti reputi un progetto musicalmente all’altezza dell’internazionalità? 

Certo che è un progetto internazionale, dài, il commento di uno dei fratelli Mazzalai, i chitarristi per intenderci, che tra l’altro sono originari di Trento anzi di Sardagna, una frazione di Trento, è stato “un progetto very unique”. Sono fiero di questo commento e mi ha dato fiducia nel mio progetto, non è facile aver quella fiducia che ti permette di proseguire nonostante tutto. 

E Gabry Ponte? È gay? 

Non credo si sia ancora dichiarato, perderebbe una grande fetta del suo “pubico fasssista” (è una battuta).

Sick Luke e Cosmo hanno una storia orale? 

Credo siano fidanzati e uno di loro ha avuto un figlio dall’altro, ma non ne sono certo.

Cosa ricordi invece della performance Collina del vento? Quando io, te, Calcutta, Flavio Scutti e Claudio Podeschi nel 2013 suonammo una Cinquecento a Sanremo prendendola a manate su una collina? Era una Cinquecento o una Mini?

Ricordo che ero molto stanco e che non vedevo l’ora di andarmene a dormire.

Torniamo a parlare di canzoni: i tuoi testi sono sicuramente controversi ma hanno un aspetto fondamentale che è quello di sembrare flussi di coscienza che a volte sfiorano il grottesco dell’esistenziale. Avrai sicuramente degli autori o poeti di riferimento. Quali?

Simone Cattaneo: è un poeta lombardo che si è suicidato nel 2009, un poeta che mi ha ispirato molto, la sua poesia e il suo volto sono una sola cosa. Ti consiglio di guardarti uno dei pochi video di lui che in un’intervista legge alcune sue poesie, lo trovi su YouTube scrivendo “Simone Cattaneo”. 

E musicalmente, invece, quali sono i tuoi miti? Soprattutto classici, visto che tu hai studiato musica e ti sei formato con cose piuttosto serie, se vogliamo..

Laura Pausini, Masini, “Michael Cesson”.

Un’ultima domanda: farai mai Sanremo? Come sta messa la musica italiana secondo te?

Lo farei ma non credo avrò il talento di scrivere per un simile festival, la musica italiana si è aperta molto e sta marcendo.


Vuoi fare un saluto a Gianluigi Simonetti di «Snaporaz» che è un tuo grande fan?

Grazie Gianluigi, sei un mito, a presto, Davide.