L’arte non deve occuparsi dell’imitazione dei mostri
(Chateaubriand, Prefazione a Atala)
«Uno scrittore può scrivere soltanto libri molto personali»: così Francesco Piccolo, all’inizio del suo nuovo Son qui: m’ammazzi. I personaggi maschili nella letteratura italiana (Einaudi, 2025). Proviamo allora a capire cosa c’è di davvero personale in un libro che a una prima superficiale occhiata sembrerebbe collocarsi in due generi di tendenza (come tali ben spremuti dall’editoria di narrativa e più o meno accuratamente formattati): il processo alla cultura patriarcale e la confessione del maschio eterosessuale in crisi.
Personale è innanzitutto la curiosità generale alla base del libro: sviscerare gli assunti teorici del ‘maschile’ nella scrittura letteraria. Molti dei romanzi che Piccolo scrive da vent’anni a questa parte – basti pensare alla Separazione del maschio (2008), o all’Animale che mi porto dentro (2018) – nascono da questo stesso interesse, che lì si esponeva (letteralmente) in prima persona, mentre qui si esprime attraverso le parole di altri scrittori: pagine che a Piccolo stanno a cuore per la specifica capacità di raccontare, attraverso personaggi esemplari, chi sono i maschi. Ne viene fuori una rassegna di opere di grande valore, senza concessioni al pop né alla letteratura triviale: da una novella di Boccaccio all’Orlando furioso fino a molti capolavori del Novecento – tra gli altri Svevo, Fenoglio, Brancati, Bassani, Buzzati – passando per una corposa componente ottocentesca: un inatteso e divertente Imbriani, i più canonici Verga e Nievo, oltre naturalmente ai Promessi sposi (che forniscono il titolo). Anche questo approccio affabulatore e divulgativo suona personale: Piccolo ama raccontare le opere altrui, soprattutto quando toccano in modi più o meno reconditi corde tutte sue – lo ha già dimostrato per esempio con La bella confusione (2023), parlando di Fellini e Visconti. Lì i temi in comune riguardavano soprattutto i modi diversi di raccontare se stessi parlando di altri, la difficoltà di disciplinarsi, il bisogno di accettare i proprio limiti. Discutere del Gattopardo e di Otto e mezzo, di Mastroianni e Claudia Cardinale, valeva come tecnica per assorbire dal cinema il pragmatismo, la spettacolarità e le acrobazie della scrittura; per assegnare all’imperfezione e all’improvvisazione del set un posto e un motivo anche nella letteratura; per venire a patti – mi pare – col senso di colpa di chi non sa o non vuole costruire opere organiche, oggettive, intere, ma lavora di montaggio, per frammenti, dentro flussi narrativi.
Ma in Son qui credo agisca un altro senso di colpa, più centrale e più grande: lo dimostra la prefazione, che nella Bella confusione non c’era, e che è la parte più singolare ma forse anche più interessante di questo nuovo libro.
Perché delimitare preliminarmente un’estetica del maschile così parziale e unilaterale, diciamo pure così legata alla sensibilità di oggi (e quindi parecchio autodifensiva)?
«La questione dell’essere maschi riguarda senz’altro l’educazione, il mondo dove si cresce e i secoli di storia che pesano sulle spalle. Ma se abbiamo amato la letteratura, allora ne siamo stati condizionati». Son qui parte da un sillogismo: l’arte rappresenta il mondo, il mondo è dominato dai maschi, quindi l’arte racconta i maschi. E fin qui, nulla da dire. Senonché il maschile che l’arte rappresenta va inteso, per Piccolo, come «potente, arrogante, violento, sopraffattore, egoista e famelico». Affiora un primo problema: perché delimitare preliminarmente un’estetica del maschile così parziale e unilaterale, diciamo pure così legata alla sensibilità di oggi (e quindi parecchio autodifensiva)? La letteratura, classica e moderna, non ha certo ignorato quel maschile, ma ha pure saputo integrarlo allargandosi in altre direzioni – più ricche, più sfumate, meno ignobili, in una parola più realistiche; e non meno spesso ha saputo sottoporlo a critica, senza aspettare le attuali guerre culturali. La narrativa non fa certo eccezione: per verificarlo basta leggere per intero le stesse opere scelte da Piccolo come prove a carico del maschile violento e sopraffattore. Per un Orlando che folle di gelosia si lascia andare a comportamenti che oggi diremmo da maschio bianco privilegiato e tossico (e Piccolo su di lui si concentra, asserendo che la follia amorosa maschile «parte dal Furioso») c’è un Medoro – soldato semplice, moro, forse bisessuale – che non gli somiglia per niente e guarda caso incassa l’amore di Angelica, e, con esso, la simpatia del narratore; c’è un Sacripante che incarna l’immagine stessa del macho gradasso, frustrato, avvilito, addirittura disarcionato, svergognato e sconfitto da una donna; eccetera eccetera. Le analisi dei passi di Boccaccio e Ariosto, soli autori pre-moderni presenti nel corpus, soffrono forse più delle altre la scarsità di contestualizzazione, non solo alle loro epoche, ma alle opere nel loro insieme: sono capolavori assai più sottili e complicati di quanto lasci intendere una lettura antologica che voglia isolarne la misoginia (rimuovendone invece la filoginia, o anche solo l’ironia: entrambe abbondanti). Un primo problema che pone il libro di Piccolo è quindi rappresentato dal fatto che le pagine che sceglie e i personaggi che estrae vengono separati da strutture polifoniche che invece li mettono in situazione, fornendo armoniche e contraddizioni che tra l’altro complicano molto, arricchendola, proprio la fenomenologia del ‘maschile’. E se è vero che ogni operazione critica procede inevitabilmente per campionamenti, è certo interessante chiedersi: perché proprio questo campionamento? Cioè: perché proprio questo maschile «potente, arrogante, violento, sopraffattore, egoista e famelico»?

La risposta la dà la prefazione stessa: perché precisamente in questo maschile, come balugina da quelle pagine, Piccolo, da lettore, si è identificato. «Mi sono sentito di volta in volta l’innominato, lo scolaro, il narratore che soffre per amore e intanto va a scopare, il violento, il geloso, il fragile, il lamentoso, il figlio che assomiglia al padre volendo essere diverso eccetera». Non solo nei libri che ha scelto di raccontare, ma in tutti quelli di narrativa italiana o straniera, di qualsiasi secolo, Piccolo vede manifestazioni di un maschile oppressivo: «tutti fanno la guerra, si incazzano, diventano furiosi, litigano, sono gelosi, minacciosi, e usano la forza in modo esplicito, picchiando, violentando. Ma sono anche violenti in modo più moderno, quindi occultato, passivo: sono lamentosi e recriminatori, e finiscono per soffocare le donne in altro modo». E da questo maschile brutale che è nella realtà, e che la grande letteratura riflette, noi lettori – dice Piccolo – «siamo stati condizionati».
Si profila un secondo sillogismo, più problematico del primo. Il maschile è brutale, i personaggi maschili sono brutali, leggendone le storie e identificandoci con loro diventiamo brutali (ed esserlo ci pare normale, se non giusto). Grazie al meccanismo eminentemente romanzesco dell’identificazione, l’arte ha restituito e continua a restituire, secondo Piccolo, «una legittimazione della maschilità, non importa se involontaria, che ha contribuito a consolidare la cultura virile». Per concludere in modo stupefacente: «Questa ipotesi è poco discutibile, quasi pleonastica».
Certo, è Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti