Da Montale a Sanguineti, da Pasolini a Raboni, l’Italia del Novecento vanta un’importante tradizione di poeti critici. Si tratta di personalità forti, spesso ingombranti; eppure, anche nelle pagine più tendenziose, il loro impegno è uguale a quello dei critici-critici, ossia di chi prova a cogliere la verità dell’opera altrui indipendentemente dal suo grado di vicinanza al proprio percorso. Resta poco spazio, da noi, per una saggistica alla Eliot o alla Auden, cioè per la saggistica dei poeti che ritagliano un’idea di letteratura su un proprio personale metro tipologico, riscrivendo a loro misura la tradizione mentre la descrivono, e collocando l’arte in un discorso sulla civiltà che non sappia di editoriale engagé. Al lettore italiano non farà dunque male nutrirsi ogni tanto anche di queste riflessioni insieme ambiziose e concrete.
Si potrebbe dire che Eliot e Auden sono poeti in quanto critici, e critici in quanto filosofi morali – con l’avviso, sia chiaro, che la catena dei termini si può percorrere in senso inverso. La definizione mi sembra vera soprattutto per il secondo, che ci offre una guida d’eccezione, spiritosa ed elegantemente rapida, ai segreti fabbrili o psico-etici della letteratura. «Gli interrogativi che soprattutto mi interessano quando leggo una poesia sono due» scrive Auden in un brano raccolto nella Mano del tintore. «Il primo è di carattere tecnico: “Ecco un marchingegno verbale. Come funziona? ”. Il secondo è morale nel senso più ampio del termine: “Che tipo è colui che vive in questa poesia? Qual è la sua idea di ciò che è bene, di ciò che è giusto? E la sua idea del Maligno? Che cosa nasconde al lettore? Che cosa nasconde anche a se stesso?”».
In particolare, Auden ci pone di continuo una domanda che sta all’incrocio tra i due piani, e che troppo facilmente abbiamo creduto di poter dimenticare: cosa si può fare e cosa non si può fare con certe forme? Mette cioè le mani dove, dopo il tramonto del classicismo, quasi nessuno osa metterle: valuta le condizioni di possibilità di determinati modi e soggetti di rappresentazione. La dissoluzione delle regole fisse ancien régime, ci ricorda il poeta di Un altro tempo, non implica affatto quella delle domande cui le regole davano una risposta. Ieri e oggi, anzi, rispondere è più urgente, perché tocca al singolo misurare di volta in volta l’adeguatezza tra mezzi stilistici, fini e temi; né ci si può riuscire senza aver maturato, in una dialettica quotidiana di esperienze e di meditazioni, una visione del mondo che va oltre la letteratura. Lo stesso monito ci viene anche da Eliot; ma in Auden le domande diventano più assillanti, dato che quando si affaccia sulla scena poetica l’arte sta perdendo gli ultimi slanci romantici e gli antagonisti borghesi, col rischio di consegnarsi a una deriva in cui tutte le operazioni si equivalgono.
Notoriamente, i percorsi di Eliot e Auden sembrano quasi speculari: da una parte il modernista americano che si fa inglese, e passa dalle rovine della Terra desolata al sogno medievale anglocattolico; dall’altra il postmoderno inglese che si fa americano, e passa dal freudomarxismo a un cristianesimo esistenzialista e a una maschera di saggezza oraziana, mettendo in scena il suo teatro delle credenze con una maggiore riserva che comporta anche una maggiore apertura. Eliot aspira all’ordine tomistico, e guarda a Dante; Auden ama la varietà, e naviga nell’oceano di Shakespeare (intanto, in Francia, sempre all’inseguimento di una perfezione atemporale, Valéry ripete sottovuoto il gesto di Racine). Nella fabbrica audeniana, che come quella di Brecht prevede i collaboratori (Isherwood, Kallman) si produce di tutto, dalle canzonette facili ai più ardui enigmi di un’oratoria barocca; e brechtianamente, i versi migrano con disinvoltura da una pièce a una lirica isolata, o si cristallizzano in un appunto in prosa.
Un’illustrazione molto ricca di questa prospettiva estetica è offerta dalle Lezioni su Shakespeare a cura di Arthur Kirsch, ora ristampate negli economici Adelphi (trad. it. di Giovanni Luciani). Si tratta di un ciclo di conferenze tenute da Auden a New York subito dopo la guerra, tra l’autunno del 1946 e la primavera del ’47, mentre il poeta, che nel fatidico ’39 aveva abbandonato l’Europa per l’America, diventava cittadino statunitense. A pochi anni prima risale Il mare e lo specchio, prosimetro critico-drammatico composto nel buio della tragedia bellica, in cui si richiamano in vita i personaggi della Tempesta, cioè dello Shakespeare che – viceversa – scioglie la drammaturgia in poesia. Proprio in quel periodo Auden sta invece licenziando i versi teatrali dell’Età dell’ansia, per certi aspetti un’espansione o meglio un’incarnazione dell’opera precedente (ne ha appena dato una versione di notevole sensibilità Alberto Bertoni in una raccolta uscita per Book); e nel frattempo, anche grazie ai suoi impegni d’insegnante, accumula il materiale che presto si disporrà nella saggistica degli Irati flutti e della Mano del tintore. A differenza di queste raccolte, però, le Lezioni non hanno il sigillo dell’autore, ma si fondano sugli appunti degli allievi presenti alle conferenze: furono infatti conversazioni a braccio, affrontate da Auden quasi col solo sussidio di una copia dei Complete Works of Shakespeare a cura di Kittredge, e naturalmente con il deposito della sua straordinaria memoria poetica, mai disgiunta da una curiosità inesauribile per i giornali del mattino.
Del resto, anche nei testi critici da lui rivisti per la stampa, Auden non ha un tono troppo diverso da quello di una conversazione desultoria. Convinto che la critica, se non vuole suonare artificiosa o addirittura esanime, debba evitare la sistematicità, si è sforzato spesso di ridurre i suoi saggi ad “appunti”. Più in generale, nel suo modo svelto di girare intorno ai testi inquadrandoli da più punti di vista, Auden tende a stimolare la libera riflessione del lettore, anziché a saturare l’interpretazione (in genere, nelle Lezioni lascia l’ultima parola a uno scrittore contemporaneo). Ma se in tutte le forme del suo discorso letterario c’è un’attitudine centrifuga, esiste poi in lui anche una scrupolosa divisione dei tavoli di lavoro, un atteggiamento da artigiano puntiglioso alla Voltaire.
In questo senso, Shakespeare è un banco di prova interessantissimo per il commentatore. Da un lato, infatti, Auden cerca subito di capire se un certo carattere è definibile in una maniera o in un’altra, se è giusto o no che faccia una certa cosa in una certa pièce; ma al tempo stesso loda nel sommo poeta inglese quella fluida imperfezione che stimola il proprio istinto mercuriale.
Shakespeare funziona insomma come un magnifico prisma che riflette i differenti aspetti dell’anima e dell’immaginazione audeniane, e che sollecita il critico-poeta a esprimere in molte forme il suo gusto tra geometrizzante e fantastico, britannicamente umoristico e bizzarro (non di rado fonda le sue classificazioni su Carroll e Dickens, o perfino su Verne e Wodehouse). In questo gusto ha un ruolo importante il gioco acrobatico con la lingua, che il poeta invita a non disprezzare né negli eccessi classicisti (senza alcune follie umanistiche, dice, non avremmo avuto Milton) né in quelli barocchi (Shakespeare, ricorda, si fa beffe delle ricercatezze degli eufuisti solo dopo averle assimilate). Il gioco è poi in realtà anche una rigorosa autodisciplina, che Auden, ancora come il suo fratello maggiore Brecht, sfrutta per affrontare il clima postmoderno ricavandosi ogni volta una tradizione parziale e resistente, ovvero per non cadere in quel caos postmodernista che nella seconda metà del Novecento produrrà innumerevoli opere incapaci di far attrito con l’altro da sé.
Ma vale anche il contrario: la disciplina è un fattore essenziale del gioco, anzi – ecletticamente – dei giochi. Ciò spiega l’insistenza audeniana (preziosissima in Italia, dove scambiamo il serio col serioso) sul fatto che poesia si dice in molti modi, e che una cantilena infantile può essere non meno perfetta delle strofe canonicamente grandi di Dante o di Keats. E anche da questo punto di vista Shakespeare, nelle cui pagine si trova un po’ di tutto, è per eccellenza la pietra di paragone della varietà dei registri formali e degli obiettivi ideologici. Non a caso, proprio dalla sua pièce che più lo suggestiona Auden trae una delle sue memorabili opposizioni polari sui tipi di poeti: che almeno in astratto, fuori dalle concrete mescolanze pratiche, sono per lui o degli Ariele, cioè dei compositori impeccabili ma a rischio di fatuità, o dei Prospero, cioè degli artieri dominati dalla materia nobile e grave, e quindi esposti al pericolo di goffaggini o errori.
Ma veniamo all’operazione inversa, ovvero alla proiezione su Shakespeare di quelle tipologie audeniane che caratterizzano le Lezioni non meno dei saggi, e che si accompagnano di solito a microteorie morali schematiche e godibilissime sul perdono o la carriera letteraria, sull’onore o sulla giustizia. Sotto questo aspetto, spicca il ritratto di una figura emersa nella cultura europea proprio all’altezza degli elisabettiani, ovvero della modernità allo stato nascente: il villain che non è più il malvagio in chiave comica dei misteri medievali, e che adesso può anche trionfare. Si tratta di un tipo dalla coscienza ipertrofica, che fa il male per il male, e che lo fa perché non ha e non è altro: senza la sua azione gratuita di distruzione, che è infine autodistruzione, ricadrebbe subito nel nulla. Se il suo motore è l’odio è perché odia il proprio Io, anzi perché lo ha perso, e di conseguenza non può che arrendersi al processo alienante delle identificazioni. Il primo grande personaggio shakespeariano, Riccardo III, appartiene a questa famiglia: sta in piedi solo con un avversario davanti. «Riccardo è destinato al fallimento in proporzione al suo successo perché in definitiva, se controllasse tutte le anime, sarebbe ricacciato indietro nella sua ansia esistenziale» dice Auden. «Che sostegno potrebbe avere per la sua esistenza? E dunque deve continuare a fabbricarsi nemici, poiché solo così può essere sicuro di esistere». Vista la diagnosi, molto simile alla fenomenologia del totalitarismo elaborata allora dalla sua amica Arendt, non stupisce che il poeta evochi qui Hitler. Anche Riccardo non può fermarsi. Suoi fratellastri sono l’Edmund del Re Lear, e naturalmente Iago: vero protagonista dell’Otello, sostiene Auden, dato che il Moro non agisce ma subisce soltanto.
A dominare la nuova società è quindi il Vicario, il Critico. Nell’interpretazione audeniana Iago personifica l’atto gratuito, “un concetto estraneo al pensiero greco”, che si delinea per la prima volta con nettezza in Agostino (uno degli autori più citati, in questo commento esistenziale, insieme a Kierkegaard). Teologo ateo, santo capovolto e Socrate mellifluo, l’alfiere non mente: si limita a tirar fuori dagli altri ciò che sta già covando nel loro cuore. Lo specchio gelido del suo nichilismo è quello di uno scienziato moderno che conosce il proprio oggetto torturandolo, o forse di uno psicanalista in negativo: tutti caratteri che, compreso il ruolo di protagonista laterale, ricordano il Tartufo reinventato da Garboli. Anche Auden, come il critico italiano, sostanzia la sua interpretazione con alcune penetranti note di regia: e nel caso, chi ha letto i suoi saggi sa che consiglia all’interprete destinato a impersonare Iago di far sfoggio in pubblico di un virtuosismo proteiforme da grande istrione, ma di mostrare invece, quando è solo, il suo nulla ontologico attraverso «tutte le manchevolezze tecniche che si rimproverano ai cattivi attori», compresa una «dizione atroce».
Più in generale, anche nelle Lezioni Auden conferma una straordinaria capacità d’immaginare la rappresentazione nella sua concretezza. Da brechtiano analizza i songs shakespeariani, collega agilmente i caratteri delle varie pièce a personaggi di scrittori moderni o di melodrammi, e smonta i testi mostrando come il drammaturgo accorda le trame principali con le secondarie.
Di Re Lear osserva che ha un tratto operistico, e che esigerebbe quindi una ‘vera’ tempesta cinematografica. Quanto alla recitazione, un altro spunto notevole è quello su Amleto, il quale, dato che è un attore, secondo Auden non dovrebbe venire interpretato da un attore professionista, perché “nessuno può recitare se stesso”. Personaggio tutto fatto di parole, il principe di Danimarca è più memorabile dell’imperfetto dramma che lo ospita: e lo stesso si può dire di Falstaff, intruso sia nei chronicle plays sia nelle Allegre comari di Windsor, e destinato a realizzarsi in pieno, per Auden, solo nella musica di Verdi, in un mondo senza tempo come lo sono in genere quelli delle creazioni mitiche del tipo di Don Chisciotte, Don Giovanni o Sherlock Holmes, che essendo in qualche modo indipendenti dallo stile letterario si prestano a riscritture o traduzioni in qualunque medium (la Tempesta, azzarda il poeta, non cambierebbe la sua essenza se adattata per i fumetti).
Il lettore dei saggi audeniani sa che Auden non ha per Falstaff solo la simpatia che fisiologicamente ispira la sua sagoma: nella sua sproporzione comica, rispetto alle vicende in cui rimane impigliato, offre infatti anche l’unica manifestazione visibile di quella religiosa carità che in scena non si può rappresentare come tale, perché, al pari delle altre virtù cristiane, riguarda la vita interiore, ossia è radicalmente antiteatrale, e se si prova a drammatizzarla in sé diventa una mera apparenza ambigua, un’azione che potrebbe benissimo nascondere motivazioni viziose.
Un altro tema delle Lezioni, non meno importante di quello del nuovo villain elisabettiano e del mito comico, e non meno intrecciato con i capitoli della Mano del tintore, è poi quello dello Shakespeare veneziano, non solo dell’Otello ma del Mercante. Interessa a Auden, della Repubblica, la sua società commerciale, frivola, speculativa, costretta all’ipocrisia e allo sdoppiamento, che resta sospesa tra la superficie di una pace irreale e un fondo segreto di violenza rimossa ovvero scaricata sugli outsider, quei calibani ante litteram che sono i comandanti militari stranieri e i creditori ebrei. Con serietà terribile, dice Auden, Shylock rinfaccia a quella società ciò su cui si fonda. Usa la legge, che è universale, per una vendetta personale, e questo gli aliena le nostre simpatie; eppure non è un villain. Ecco allora il bilancio – da collegare di nuovo, per comprenderne la portata, alla stagione in cui le Lezioni furono pronunciate:
Io sono lieto che Shakespeare abbia fatto di Shylock un ebreo. Qual è la radice dell’antisemitismo? Agli occhi del Gentile, l’Ebreo incarna la serietà, ed è questo che gli rimproveriamo, perché noi amiamo essere fatui e non vogliamo che qualcuno ci ricordi che esistono anche cose serie. Con la loro esistenza – ed è giusto che sia così – gli ebrei ci rammentano questa serietà, ed ecco perché desideriamo il loro annientamento.
Sulle pagine veneziane spira ovviamente un’aria di tramonto bizantino; ma le riflessioni forse più suggestive sono quelle dedicate al tramonto in senso proprio dell’universo shakespeariano. Alle sue soglie sta Antonio e Cleopatra, che Auden (in pagine da confrontare con le analisi di Gabriele Baldini, e con le lezioni non meno conversevoli di Tomasi di Lampedusa) considera la tragedia forse più perfetta e uniforme di Shakespeare, in un certo senso agli antipodi di quelle in cui i grandi personaggi mitici e citabili fanno del dramma un loro canovaccio. Qui è risolto bene anche il problema costante del teatro moderno, che rischia sempre di rapprendersi in un pasticcio eterogeneo di storia e psicologia. Nell’Antonio e Cleopatra, infatti, vita pubblica e privata sono tutt’uno: la dissolutezza erotica si oppone alla dissoluzione totale di un’èra, e insieme la favorisce. La poesia dei dialoghi iperbolici tra i due capi-amanti, dice Auden, è «come la cucina raffinata», «una tecnica per alimentare l’eccitazione del vivere». Ciò che unisce i protagonisti non è un sentimento ineffabile, romantico, ma un amore del mondo che rifiuta la fine e la sofferenza, e che dunque appartiene a noi tutti. Il che, secondo il critico, spiega perché nel dramma fa bel tempo: più il mondo è bello e desiderabile, più sembra straziante perderlo. Antonio e Cleopatra non accettano di attraversare i naufragi che purificano e resuscitano gli uomini nell’ultimo Shakespeare; non li tocca quel nuovo battesimo del mare che nelle pièce successive, spiegherà l’Auden degli Irati flutti, non è più quello dei classici e non è ancora quello dei romantici, ma da elemento negativo si trasforma nel «luogo della sofferenza purgatoriale».
Questo mutamento, è noto, va insieme a un inedito stile tardo, lo stile degli artisti ormai indifferenti al pubblico, che in Shakespeare è incantevolmente fievole e fiabesco. Perciò, sostiene Auden, le estreme opere shakespeariane, dal Cimbelino alla Tempesta passando per Il racconto d’inverno, attirano spettatori o semplici o raffinatissimi, e andrebbero interpretate da ragazzini. Il loro esito, aggiunge, è più o meno lo stesso: perdono per tutti.
Ma il caso della Tempesta è più singolare. Altrove il commentatore insiste sul fatto che qui il perdono non è pieno come in Pericle, in Cimbelino e nel Racconto d’inverno, ma soltanto formale. I tipi loschi, infatti, dicono di pentirsi unicamente per paura del castigo; e Prospero, davanti a loro, più che conciliante è sprezzante, perché sa di avere in pugno dei nemici. Come non pensare ai vincitori della seconda guerra mondiale, che non avendo scontato fino in fondo la crisi di civiltà non sono affatto convinti della loro autorevolezza morale? E davanti a Il mare e lo specchio, che riflette e approfondisce questa visione, come non pensare al rimorso di Auden per il suo ritiro nel Nuovo Mondo? Come non vedervi anche la giustificazione di chi sa che deve passare attraverso un futuro ritrovamento e rinnovamento del Vecchio? Certo è che Prospero, come l’epoca liberaldemocratica e tecnologica di là da venire, arriva a un malinconico compromesso. La sua tristezza di mago bianco dipende dal fatto che può addomesticare l’ambiente circostante solo al prezzo dell’irrealtà, ovvero di una vittoria di Pirro, artificiale; e forse, più profondamente, dipende dall’aver scoperto che l’unico strumento disponibile per tentar di restaurare la compattezza perduta del mondo di ieri, ovvero l’educazione, si rivela infine vano, e quando non vano pericoloso, al punto che l’utopia e la distopia, nella sua azione, sono quasi indistinguibili.
È questo il clima che avvolge l’autunno del Rinascimento, e l’aurora della rivoluzione scientifica. Vi troviamo un universo cupo e confuso, fuori sesto, e dei tentativi più o meno azzardati o astratti d’immaginare un Nuovo Inizio, un Ordine necessario ma forse impossibile. Alla fine della modernità da cui ci arriva la voce di Auden, questi caratteri riaffiorano con la stessa disorientata urgenza dei suoi esordi. Non stupisce allora che le Lezioni, come i saggi e non pochi poemetti audeniani, siano tutte percorse da un altro tentativo classificatorio: quello delle diverse concezioni dell’età dell’oro o della Gerusalemme futura, la Città di Dio contrapposta alla città terrestre.
Se la tragedia antica era basata sulla hybris, la tragedia di Shakespeare, sostiene Auden, si fonda sul peccato di orgoglio. Non si dà più in lui una struttura sociale compatta sullo sfondo di un destino ineluttabile, ma una scelta compiuta in un contesto chiaroscurato, che da un momento all’altro si frantuma nel caos. Come capita quando un’unità si dissolve, nasce la consapevolezza. Ci si comincia a chiedere cosa sia una società, e come si distingua da una comunità o da una folla. È un problema sul quale il commentatore, che lo trasporrà anche alle connessioni interne del linguaggio, esercita tutta la sua sottigliezza diagnostica. «Una società» afferma «è qualcosa a cui posso appartenere, una comunità è qualcosa a cui posso unirmi, una folla è qualcosa a cui mi aggiungo» – e la folla (o “il pubblico”) trionfa quando comunità e società non riescono più a soddisfare il bisogno d’identità e di valori degli esseri umani.
Quell’individuo simbolico che è l’eroe moderno vive in un sistema misto e precario. L’intimità e le circostanze, la sofferenza subìta e la decisione s’intrecciano nella sua vicenda turbinosamente; e in Shakespeare, Auden lo accenna, questo intreccio diventa quasi clinicamente psicosomatico. All’altezza degli elisabettiani, la moralità religiosa medievale si trasforma in dramma storico; e poco più avanti, il dramma storico si trasformerà in romanzo. Sono, ancora, tutte conseguenze del cristianesimo, che col suo mondo di peccatori, di provvidenze incerte e di esami interiori sabota il tragico. D’altra parte, in Shakespeare nemmeno il comico nel senso rigoroso della parola riesce ad affermarsi, tanto è vero che spesso alle sue commedie si aggiunge un aggettivo (“nera”) che corregge il sostantivo. Nell’opera che ci ha lasciato i termini del conflitto tra individuale e universale non sono netti, e al poeta manca dunque la posizione salda del moralista: ma come ha spiegato bene Baldini, la sua grandezza sta proprio nell’assenza del giudizio fermo sulla società. Non per caso il comico e il tragico più definiti – gli indici “Plauto” e “Seneca” – si trovano solo ai rozzi esordi della sua carriera: dopo si rovesciano di continuo l’uno nell’altro, contaminandosi come la prosa e la poesia, la natura e la storia.
Il mondo di Shakespeare, né più integralmente cristiano né pagano, è un mondo instabile, difficile da decifrare. I rapporti tra fato, provvidenza e colpa sono opachi. La volontà si confonde con la fantasticheria, il potere con le allucinazioni. A modernità e postmodernità ormai sfumate, o pulviscolari, noi oggi torniamo vicini a questo stato del tardo Rinascimento. La condizione shakespeariana è una condizione di varietà senza forma; e perciò, come notano Auden e negli stessi anni Savinio, è esteticamente la condizione del “varietà”. Per fare di questa Babele di voci, registri e suoni un’opera duratura occorreva (occorre ancora?) un genio metamorfico, fatto per muoversi nell’ambiguità costante. Un genio, allora, capace di far fruttare l’apprendistato trascorso nell’imbastire quello spettacolo incoerente, quel polpettone tenuto assieme con approssimativi legacci a vista che è il chronicle play (nel XXI secolo: il romanzo-verità?). Il commentatore osserva infatti che dove non tocca i vertici di Shakespeare, il teatro elisabettiano si sfascia e precipita in bassure che non si riscontrano in quello classico francese, il quale, a causa dei suoi schemi coerenti, consente anche ai mediocri di raggiungere una certa dignità.
A Auden, lo si è detto, questa varietà va a genio; è anzi uno degli autori che più ci ha dimostrato, con la sua opera multiforme, come stesse diventando il nostro destino – ma anche come, in assenza di un “mondo nuovo”, servissero alcune regole capaci di arginare la cattiva infinità. Auden ha ratificato la fine del romanticismo, anche di quello rovesciato e rinnegato dei modernisti, e in particolare delle sue false tragedie amorose. Kirsch osserva che nelle Lezioni, come del resto altrove, fa spesso riferimento a una “psicologia cristiana” sfumata di freudismo, distinguendo Eros e Agape, e criticando con l’aiuto di De Rougemont le convenzioni dell’amore petrarchesco. In sintesi, contro Romeo e Giulietta, che confondono romance e sentimento, Auden sceglie il duetto brioso di Benedetto e Beatrice in Molto rumore per nulla. Davanti alle iperboli degli innamorati, si chiede subito cosa ne resterebbe nel ménage quotidiano, quando tocca fronteggiare non solo faccende assai prosaiche, ma anche, senza più scampo, la contraddizione per eccellenza comica dell’eros, per cui se il legame tra due amanti è unico, a letto tuttavia non possono fare se non ciò che tutti i mammiferi fanno.
Prevale qui lo spirito ricco di humour non meno che di sentimento, di realismo non meno che di attitudine al gioco, a cui ho accennato in precedenza: lo stesso, in definitiva, delle poesie di Auden, blues e ninnenanne che dell’amore raccontano la dolcezza e lo strazio, ma senza mai smettere d’ironizzare sulle sue illusioni megalomaniache. E probabilmente la saggezza di questo poeta si potrebbe riassumere nella frase aforistica in cui dice che «causa degli eventi tragici è forse il fatto di prendere troppo sul serio quelli frivoli»: compresa l’arte. Audeniana più che mai, anche nel senso di anti-eliotiana, è sotto questo punto di vista la conclusione religiosa della traversata nell’oceano di Shakespeare. «Io trovo Shakespeare particolarmente affascinante in questo distacco verso la sua opera» confessa Auden.
C’è qualcosa d’irritante nella determinazione di artisti veramente eccelsi come Dante, Joyce, Milton, intenti a creare capolavori e convinti di essere importanti. Saper dedicare la propria vita all’arte senza dimenticare che l’arte è frivola è una formidabile conquista del carattere. Shakespeare non si prende mai troppo sul serio. Quando l’arte si prende troppo sul serio, cerca di fare più di quanto sa fare. Perché l’arte secolare possa esistere, agli artisti conviene senz’altro, quali che siano le loro convinzioni, sostenere la religione. Se la religione viene meno, se scompare il soprannaturale, l’arte diventa magia, e in tal caso è gestita da autorità che esercitano la forza della frode; oppure diventa falsità, e allora è perseguitata dalla scienza. Ma per continuare a esistere, in qualunque forma, l’arte deve donare piacere.
È un’idea in cui sentiamo riecheggiare un’altra sentenza, orgogliosamente britannica, consegnata alla Mano del tintore: «fra le tre o quattro cose per cui un uomo d’onore dev’essere pronto, se necessario, a morire», vi scrive Auden, «il diritto al gioco, alla frivolezza, non è la meno importante».