Di mia zia Filomena (in realtà prozia, visto che era la sorella di mia nonna), mio nonno diceva sempre: quella è una commediante, un’inguacchiera. Ero troppo piccolo per capire in cosa consistessero i suoi inguacchi e le sue commedie, ma non dovevano essere solo da ridere: gli scuotimenti di testa, il tono di rimprovero lasciavano sospettare una disapprovazione più grave del fastidio per non si sapeva mai (o meglio, non sapevo io) quale pasticcio. Del resto zia Filomena era sì simpatica, ma un po’ troppo spiccia, e andava sempre di fretta come qualcuno che, mentre sta facendo qualche cosa, ha già la testa alle tre o quattro altre che deve sbrigare dopo. Ti dava una di quelle caramelle al mou che ti si appiccicano ai denti, dimenticandosi che non mi piacevano, e mentre ne appallottolava l’involucro per infilarselo in tasca, aveva già in mano un bicchier d’acqua e una caramella Ambrosoli, scartata prima ancora che mi fossi disfatto, in bocca, di quella precedente:

– Questa è al miele, ti fa bene alla gola. 

Sapevo che era rimasta vedova giovane (suo marito credo fosse morto di cancro, al principio degli anni Cinquanta), con un figlio a carico. Si era data da fare (stavano già lì, i famosi inguacchi?), e doveva avercela fatta se era riuscita prima a garantire a sé e a suo figlio Mimmo (che io chiamavo zio, ma che era in realtà cugino di mio padre) una vita decorosa, poi a lui la possibilità di studiare e di arrivare al grado di dirigente delle poste con una rapida carriera impiegatizia. Era stata donna delle pulizie in alcune famiglie, in particolare da una certa signora Annarita, vedova come lei, che ogni tanto andava a trovare alla Crocetta, riportandone vestiti smessi o gioielli di bigiotteria che davano un’occasionale eleganza alla sua mise, per solito disadorna (me ne voglio stare comoda) e assestata sui toni del beige. Aveva ormai una pensione minima, con forse in più un piccolo sussidio che le veniva dalla vedovanza, e qualche provento dei servizi che continuava a fare. Delle antiche occupazioni conservava del resto una spessa rete di relazioni nel quartiere (quella la conosce tutta via Eleonora d’Arborea, commentava con accigliati sottintesi mio nonno), soprattutto in nome dell’abilità nel fare le punture, per la quale la chiamavano un po’ dappertutto. La chiamava anche mia madre perché si sapeva, o almeno così diceva lei, che preferivo le iniezioni agli sciroppi antibiotici: ancora oggi, in effetti, l’idea di quelle sospensioni viscide, vischiose, in cui l’aroma sintetico di fragola non riusciva a coprire un sentore catarroso di uova marce, mi dà un senso istantaneo di nausea. Arrivava trafelata, tra le sue mille visite da fare, incluse quelle a mia nonna, sua sorella minore, che era l’opposto di lei: una mite, smagrita, reclusa in casa per la sua nefrite e poi, negli ultimi anni, immobilizzata a letto nell’attesa che le sacche per la dialisi facessero rifluire il loro liquido giallastro nel suo corpo, pazientemente afflitta e accudita da tutti; l’altra robusta, energica, sempre in giro per quanto, a vederla con i suoi capelli grigiobianchi tagliati corti per praticità, i suoi cappelli di lana e il suo cappotto cammello, fosse perfettamente inscrivibile in un rettangolo, icona intemporale e senza fondo oro di attivismo e determinazione. I suoi arrivi erano preparati da una breve telefonata di mia madre, che per andare a segno doveva essere fatta a ora di pranzo, altrimenti quella chi la trova; e da un pentolino-baracchino messo sul fornello per far bollire l’acqua e sterilizzare una grossa siringa di vetro, simile a quelle sottili usa-e-getta di oggi quanto appunto il telefono di bachelite grigia da cui chiamava mia madre o il Telefunken arancione e panciuto lo sono al mio smartphone e agli schermi ultrapiatti appesi alle pareti di adesso. Il mondo si è assottigliato: cinquantenni massicce, compatte ed efficienti come zia Filomena, direi, non ne esistono più; non so se esista ancora il suo tipo umano, né la fitta serie di conoscenze vicinanze entrature e scambi di un quartiere operaio degli anni Settanta come Mirafiori Nord (però forse sì, in certe zone di immigrazione extracomunitaria: intere strade abitate da cinesi o senegalesi o maghrebini devono avere qualcosa di quegli aggregati sociali, alla fine gli esseri umani, per diversi che siano loro e le circostanze in cui si trovano, tendono a ripetere certe costanti etologiche); non so, in fondo, nemmeno se zia Filomena fosse un tipo, e se la commediante-inguacchiera che si rivestiva dell’abbondanza compatta della sua carne, delle sue rigide maxigonne e dei suoi gambaletti contenitivi trovasse altre incarnazioni, vestimenti simili e movenze analoghe in altri esemplari della specie.

L’odore dell’alcool (lo stesso che si usava per le pulizie) si spandeva, con un batuffolo di cotone mi sfregava la parte alta di una natica che non avrebbe mai scoperto più di tanto, e zàc, calava netto e preciso l’ago: è vero che non faceva male, ma poi, dopo, si sarebbe fatto sentire il dolore non dell’iniezione, ma del farmaco che, temevo, ristagnava lì, non si sarebbe davvero diffuso in tutto il mio corpo a curarmi. Intanto, lei e mia madre chiacchieravano in un dialetto che le trasformava in zi’ Filumè e Marì, e di cui capivo quel che potevo, l’ostacolo linguistico sovrapponendosi all’opacità di certi referenti, reso meno superabile da frasi sospese e da tutto un repertorio musicale di interiezioni (eh! ih! uh!) che, a ripensarci oggi, fanno di zia Filomena la versione contraltile di un basso buffo rossiniano, qualcosa tra un don Magnifico in ambascia per i suoi rampolli femminili e il palazzo in agonia, e un don Basilio con i tremuòti delle sue calunnie. Qualche censura per la presenza d’o’ criaturo che ero io ci sarà pur stata; poi chissà cosa passa per la testa di un bambino, quanta curiosità importuna la possa abitare e quanta distrazione, soprattutto di fronte a soggetti sconosciuti che vivono solo nel mondo delle parole, più sfocati dei protagonisti delle favole in quanto privi di tratti che li rendano prevedibili, riconoscibili e perciò vivi. Nulla quindi che diradasse il mistero degli inguacchi: solo la percezione che zia Filomena continuava a produrne, allo stesso modo in cui i tigli del cortile producevano i loro fiori e le loro stille appiccicose a giugno, o i ragni nella cantina di casa le loro tele da spazzare via a colpi di scopa. «È carattere», commentava a volte mia madre quando il nonno ripartiva con le sue censure; ma non so se fosse un modo per giustificarla o una constatazione che, dando ragione a lui, confermava aggravandola l’immutabilità calamitosa della zia.

Una rivelazione ce l’avrei avuta molti anni dopo, quando ero al liceo. Mimmo, il figlio di zia Filomena ormai sposato da una quindicina di anni, era vicino a separarsi dalla moglie Claudia, per volontà di lei. Mia zia cercava in tutti i modi di scongiurare il fallimento del matrimonio, che doveva considerare un fallimento del figlio, suo e della Famiglia come istituzione tanto più sacrosanta in quanto la sua era stata mutilata da una vedovanza così precoce. Aveva iniziato tutta un’opera di convincimento della nuora in nome d’e’ criature, cioè dei suoi due nipoti: ma niente, la nuora era irremovibile e, da quello che intuivo già allora, a ragione. Sentivo lunghe telefonate a mia madre, che, appena abbassata la cornetta, sbuffava irritata: quella non la vuole proprio capire, la deve lasciare stare (doveva cioè lasciare in pace Claudia, per cui mia madre parteggiava magari non troppo clamorosamente, ma senza aver mai dubitato un istante della giustezza delle sue decisioni). L’inguacchio si manifestò in mia presenza un giorno che zia Filomena era venuta a prendere un caffè da noi, in una di quelle visite pomeridiane che facevano parte integrante della sua campagna a tutela del matrimonio.

– Chella va ch’e’ femmene.

Fosse la mia età di allora, fosse lo stupore perché non un’insinuazione, ma un’asserzione presentata come incontrovertibile su un comportamento così scabroso (e mi ci volle un po’ per capire che stava parlando di quello) veniva da una corpulenta signora di più di sessant’anni, rimasi lì ipnotizzato ad ascoltare tutto, incurante pure delle occhiatacce di mia madre che – come se fossi un bambino, o per imbarazzo suo – mi avrebbe volentieri spedito fuori dalla cucina. 

– Oi zì, ma che sono cose da dirsi?

Non erano cose da dirsi perché, semplicemente, erano false e incredibili. Io non avevo diritto di parola (o non me lo prendevo), mia madre era troppo scandalizzata per darle spago e mettersi a fare domande: e così, queste femmene con le quali sua nuora sarebbe andata non acquistarono mai un’identità, magari anche solo generica (compagne di ufficio? vicine di casa? signore incontrate ai giardini mentre portava a spasso il cane?). Eppure, forse reso più vasto da quella sua forma così nebulosa, si intravedeva un mondo che, ripeto, mi sbalordiva e turbava tanto per la sua natura (l’esistenza del lesbismo era confinata alle poesie di Saffo, e all’ingiunzione della professoressa di greco di non far battute che per altro nessuno dei miei compagni aveva accennato a fare), tanto per l’emittente della notizia (giacché, non so bene per quale motivo, pensavo che una donna di quella età non potesse nemmeno sospettarne l’esistenza, facendone nella mia testa, con un salto incongruo, oltre a una favola della poesia antica, una possibilità di vita – più che presente – giovane, futura e lontana, sicuramente preclusa all’esperienza e all’immaginazione di zie, prozie, nonni e genitori).

Zia Filomena non defletteva, perentoria:

– T’ho ddico io. Chella va ch’e’ femmene.

Lo aveva proclamato anche a mia zia Pina (zia davvero, questa volta, in quanto moglie di un fratello di mio padre), la migliore amica di mia madre e la mia zia preferita. Anche lì, partivano lunghe telefonate o discussioni nella cucina di casa nostra, con le due cognate che facevano lega in difesa della povera Claudia, senza però fare davvero guerra a zia Filomena. 

– Non l’ha mai potuta vedere.

– Che poi che male le ha fatto? Quell’altro scemo del figlio, invece…

– Ma tu veramente dici?

– Fammi stare zitta. ’E femmene! Lo so io chi sta dietro a ’e femmene!

– Io vorrei proprio sapere che gli ha detto il cervello, a zìata.

– Commediante!

– Inguacchiera.

Come mai, screditandosi con queste malignità, conservasse ancora e avrebbe conservato pure dopo un suo prestigio familiare, mi è difficile dirlo. Mia madre, mia zia Pina, mio nonno: tutti erano indignati, nessuno interruppe o allentò i rapporti con la calunniatrice. Forse l’avranno giustificata come madre accecata dal dolore (e dal dispetto) per il divorzio del figlio; forse avranno letto le sue intemperanze come battute del suo copione da suocera oltreché, ovviamente, manifestazioni del suo carattere; forse, nonostante tutto, certi affetti di lunga data, e più ancora certi legami di parentela, specie in ambienti circoscritti quali una famiglia di immigrati in una grande città, non si rompono nemmeno di fronte al dissenso e alla riprovazione, e a patto che ciascuno stia al suo ruolo (e sia pure il ruolo dell’intrigante nella commedia) tutto rimane così com’è, la tenuta complessiva della compagnia essendo più importanze di riserve morali che, alla fine, sfumano, si sciolgono, si possono accantonare quando torna utile. 

– Ià, nun ce facimme ’o sanghe amaro.

Cattiveria deliberata, invenzione paradossale sfuggita di mano o proiezione di qualcosa di più oscuro e indicibile, nessuno le diede retta: non c’era nessuna lesbica in famiglia, un matrimonio che finisce è sempre una cosa triste, non c’entrava nulla quell’altra storia lì. Ma il semplice fatto che zia Filomena avesse tirato fuori questa voce le attribuiva, questa volta ai miei occhi, un potere fino ad allora sconosciuto e pieno di minacce. Tutte le caramelle al miele, e tanto più quelle nauseabonde al mou, mi tornavano su in veleno dagli anni dell’infanzia, insieme alle punture e agli antibiotici che mi ristagnavano in corpo mi avevano intossicato, mi intossicavano. Perché se aveva visto una lesbica dove non c’era, com’era possibile che non vedesse lì di fronte a lei, con il cucchiaino del caffè sospeso a mezz’aria, imbambolato e in allarme, un giovane omosessuale?