Non si matura mai veramente. Dopo i venti e qualcos’anni si è fatti e finiti e da lì in avanti si invecchia. Un trentenne di oggi è un venti e qualcosenne invecchiato, un sessantenne idem. Fare figli serve solo a dare movimento. Poi i figli crescono, maturano, e a venti e qualcosa iniziano a invecchiare, e tu che li hai fatti impazzisci: crisi di mezza età si chiama. In realtà hai ancora vent’anni. Prendete mio padre. A cinquant’anni suonati ha preso una sbandata per la nuova segretaria – neanche più giovane, soltanto nuova – e ha mollato mia madre come una scarpa vecchia in un fosso. S’è messo con la segretaria, si è trasferito da lei, divorziata con un ex marito violento e due figlie, una piccola che adesso lo chiama nonno e una grande che non lo chiama per niente. La domenica andavo a pranzo da loro, ogni tanto. Non mi interessava granché la questione famiglia, né la nostra vecchia cioè la mia, né la loro nuova. Eravamo tutti adulti in fondo, io un venti e qualcosenne autentico, loro venti e qualcosenni intrappolati dentro corpi tetri di cinquantenni cadenti. Facessero pure quel che dovevano. Che si provocassero dolori e piaceri a seconda, a vicenda, a me non interessava prima e non interessa tutt’ora. Voglio bene a mio padre, sia chiaro. Voglio bene a mia madre e a mio fratello. A tutti loro voglio bene come si vuole bene a persone che si conoscono da tutta la vita, cioè con immensa fatica. A volte ci si chiede il perché. Il fatto è che io non ho buona memoria. Il che aiuta a non tenere il conto dei danni, che è un vantaggio concreto. Ma ostacola anche il riflusso dei ricordi piacevoli. Ma va bene così, no? Siamo tutti bambini, ventenni egoisti. I più tristi e repressi sono gli uomini che rimangono saldi nella famiglia, ritti sul ponte di coperta della nave che affonda, impettiti nel saluto militare, come idioti, a guardare negli occhi il disastro. Le vere rockstar invece sono i politici e gli artisti, che possono fare quello che vogliono senza dover rendere conto a nessuno, i primi perché nessuno li controlla, i secondi perché sono esseri umani di genio, e ai geni, a quelli veri almeno, va lasciato un po’ di spazio. Io voglio bene a tutto il creato. Sconosciuti umani e animali compresi. Sono ben disposto verso il prossimo. Mi stupisco e godo dei fatti più semplici, di uno svolazzo nel cielo come di un bottone per terra. Mi sento bene, generalmente, sono beato, anche se bere a volte aiuta a sentirsi bene quando bene non ci si sente parecchio. L’hanno inventato apposta l’alcool, e fare finta di non saperlo o che non sia così non depone a favore della nostra intelligenza. Certo si può esagerare, il rischio c’è. Ma come con tutto del resto: il rischio c’è. E allora? Che vita sarebbe.

Tempo fa sono stato con una ragazza, Teresa si chiamava. Teresa mi assillava, anche il vetro della doccia mi faceva lavare, appena dopo la doccia. Col tiravetri verde lime. Me lo ricordo ancora. Così non rimane il calcare, berciava… Il calcare. Vedete bene che la gente va dietro al calcare. Sul vetro della doccia vedono solo il calcare ma non riescono a vederci attraverso, al vetro. Davanti a un vetro loro guardano il vetro. Io Teresa non l’ho nemmeno salutata. Me ne sono andato un giorno dalla porta, alla luce del sole, e mi è spiaciuto tanto, ma era inevitabile. In più ho sempre avuto il netto presentimento, e ogni giorno che passa, devo dirlo, diventa sempre di più una specie di sicurezza del tipo il cielo stellato sopra di me la legge morale dentro di me, che se ognuno di noi facesse ciò che lo fa stare bene prima di tutto il resto, vale a dire che se invertissimo quel monito diabolico del prima il dovere e poi il piacere, che deve aver forgiato in questa guisa capovolta un sadico cornuto, ecco, se tutti noi si facessero le cose al contrario (e non mi frega un cazzo che questo è un toscanismo, per esempio, dal momento che mi fa stare bene) vivremmo, dico io, tutti e sempre, e letteralmente, nel paese di cuccagna. E le cose funzionerebbero anche, e pure benone, e tutti saremmo felici. Ci credereste? È così semplice.

Tutti i problemi dell’uomo, mi pare, discendono dal lavoro. Tutto sta dentro racchiuso nell’abominevole guscio di noce del lavoro e da quel gheriglio satanico sgorga come un’infezione nel mondo il Male. Solo una persona finora ho conosciuta che mi ha detto sì, io amo lavorare. Pupille lattiginose ed esplose aveva questa persona, tale quale il pesce lanterna degli abissi, che con la sua lampadina bioluminescente che sempre gli pende dalla fronte attira le prede e le sbrana. Questa persona però non aveva nulla di aggressivo o ripugnante o predatorio, come il pesce abissale, al contrario. Era una donna giovane e grassa, tonda, morbida come un marshmallow, che non faceva altro che mangiare dolcetti e lavorare, mangiare dolcetti e lavorare, e che con quei suoi occhi sferici e malsani un giorno mi disse che le piaceva un sacco lavorare, che lei lavorava tutti i giorni dalle otto alle dieci ore. E perché? chiesi io candidamente. Che altro dovrei fare, mi rispose.

Pulire i pavimenti di una teoria interminabile di aule di una scuola cattolica su quattro piani: mettiamo ad esempio che il lavoro per te sia questo. E mettiamo anche che questo lavoro sei costretto a farlo di fretta, perché a una certa ora la luce si spegne. Ora, se si spegne la luce non è segno che hai finito, ma solo che la luce va spenta a quell’ora, semplicemente: qualcuno ha deciso così. Se tu però, disgraziato, non hai ancora finito, dato che nella somma chiaroveggenza di chi ha stabilito che il tuo turno doveva durare dalle-alle era previsto che tu a quell’ora dovevi essere già al piano superiore, dove la luce si spegne più tardi, ecco, in questo caso come si diceva una volta tu ti attacchi al cazzo, e lavori al buio, come un minatore, come quel cretino di Giona che prega nelle budella della balena, proprio come Giona che aveva provato a ribellarsi a Dio, ma che ci ripensava sempre perché sostanzialmente era un vigliacco. E allora eccoti lì il giorno seguente, vigliacco tra i vigliacchi, come Giona, che ti affretti come se ti corressero dietro coi forconi e si direbbe, da fuori, che ci provi un gusto particolare a strofinare questi dannati pavimenti. Quando finisci ritorni nello spogliatoio, e in spogliatoio ci trovi Malik, il senegalese fiorentino che per una serie di eventi che al momento non vale la pena raccontare è finito a lavorare proprio qui. Lo trovi che piange a dirotto. Piange a dirotto, Malik, perché tutta la settimana ha fatto soltanto cinque ore al giorno, e non gli bastano. Cioè piange, Malik, perché deve lavorare di più, ed è questa forse l’inculatura di più gran rilievo operata dal lavoro contro il genere umano. Fai un lavoro di merda, che odi, ma ti ritrovi a volerne di più. Sei insaziabile, ne vuoi ancora, vuoi fare più ore di seguito di questo lavoro merdoso che odi perché altrimenti non campi. È come saltare giù da un palazzo ogni giorno e tutte le volte rimanere storpio, e non riuscire mai veramente a ammazzarsi. Non tutti lo capiranno, certo, ma sentite Malik, sentite che cosa dice Malik il senegalese fiorentino in buon italiano, fra i lacrimoni grossi come lumaconi spaziali che gli sbavano all’ingiù la pelle nera liscissima. Dice: è dura, ma ce la fa eh, io ce la fa, e fra i lumaconi sorride la smette di piangere. E a me viene via tutte le volte la carne dal cuore, mi viene via la carne dal cuore come le tasse che evaporano dalla mia busta paga, cioè senza che io possa farci un bel niente, e ormai sento che del cuore nel petto mi ci è rimasta appena l’ombra schizzata di un osso che non esiste, come una fosca pittura rupestre sulla parete di una caverna, come il fossile di una spugna, o meno, neanche, sì, forse meno.
L’altro giorno Malik mi ha spiegato come funziona la poligamia. Malik è senegalese, dicevo, ha passato vent’anni in Italia, principalmente in Toscana, nella periferia di Firenze, a lavorare nelle concerie cinesi (italian lather, avete presente? italian lather è Malik coi cinesi giù a Firenze), ma prima delle concerie ha fatto la fabbrica, la cucina, i campi, di tutto ha fatto, in lungo e in largo per il centro-nord dello stivale; a sud di Firenze non c’è mai stato. Ogni tanto quando deve dire che non gli piace qualcosa dice che non gli garba, e a me fa sorridere. Parla un italiano chiarissimo, un francese perfetto, qualcosa di inglese, che però s’è dimenticato, e poi senegalese, ovviamente; ha una moglie sola. Presso il megarullo che sputa duemila gradi e lava tutto quello che ci cacci dentro, Malik un giorno chiacchierava con Mamadù, che è del Burkina Faso e ha una moglie sola pure lui. Ho afferrato la maggior parte di quel che dicevano, ma non proprio tutto. Oltre a varie cose sulla politica di non so quali paesi africani, suppongo il Senegal e il Burkina Faso, si dicevano seri e sorridenti di come fosse impossibile, tanto per farsi un esempio fra loro e capirsi, fare accettare in Occidente una cosa come la poligamia.

Fare accettare non nel senso di fare accettare, ovviamente, ma solo nel senso di far comprendere la poligamia in Occidente. Poi ho chiesto delucidazioni a Malik, che per l’appunto mi ha spiegato per bene la faccenda. Se tu hai moglie, dice Malik, lei rompe i coglioni. Ma se tu hai due moglie, nessuna rompe i coglioni. Moglie sa che se rompe i coglioni tu vai dall’altra, allora tutte e due stanno buone. Geniale, fantastico, stupefacente. Ma tu hai solo una moglie, no? dico io. Per ora! sbotta Malik. Malik è un omone altissimo, schiena dritta come una tavola, mani rovinate e forti come radici, e quando ride, ride di pancia. Ha un gran bel sorriso. Ma più di tutto la schiena è magnifica, come una tavola, un gioiello di schiena. Gesù… così sembro un negriero. E tua moglie? dico io. Sarebbe d’accordo se ti prendessi un’altra moglie? Eh! Ma lei non sceglie! dice Malik come se fossi cretino. È musulmana, legge musulmana dice che uomo può avere quante moglie vuole, donna non sceglie. E perché tu scusa vorresti due mogli? Domanda sciocca da parte mia, lo ammetto. Eh, perché… Donna è lì, no? Donna non è fatta per cane, non è fatta per gatto. Donna è fatta per uomo. Cosa sta a fare lì donna, se no? Mmh… (questo sono io). Anche uomo è fatto per donna, dice Malik. È così. Quando tu hai donna poi vuole un’altra, è natura, uomo è fatto così (e ride). Poi Malik – perché glie l’ho chiesto – passa a illustrarmi la storia del mondo. Adam e Iv hanno fatto figli e riempito terra, loro sono primi, poi serpente è entrato in giardino e Dio ha fatto scendere Adam e Iv. Adam è fatto scendere in Vietnam, Iv da parti di * (non mi ricordo, onestamente), e serpente anche è fatto scendere da giardino, serpente da parti di Cina. E il paradiso? dico io. Secondo te esiste? In questo momento stiamo pulendo il cinquemilionesimo piano insieme, al buio, e chiacchieriamo del paradiso perché — mi pare chiaro il perché. Paradiso sì che esiste! dice Malik. Cosa siamo a fare su terra, se no? (per Malik, mi sembra, prevale la logica apodittica e rassicurante del “se no”). Siamo su terra perché è prova per paradiso, se facciamo bravi poi andiamo. Mmh… E la cosa delle mogli? dico io. Per il paradiso va bene? Certo! Ti ho già detto, è legge. Io non trombo da due anni (e ride). Due anni che non vedo moglie, moglie è in Senegal. Io non faccio adulterio. Per trombare altra donna serve due moglie (e ride). Io non fumo, non bevo, non rubo, lavoro, non faccio adulterio, sono mezzo santo, io! (e ride). Senti ma i cristiani allora? dico io. Cristiani va bene, tutte religioni va bene. Dio è uno poi c’è tante religioni. E Maometto? dico io. Mohammed è ultimo profeta, ha detto regola per vivere e poi andare in paradiso. E Gesù? dico io. Gesù Cristo, dico, è figlio di Dio o no, secondo te? No (e ride). Gesù è figlio di Maria. Gesù è profeta come Mohammed, ma Gesù è venuto prima. Poi è venuto Mohammed, che è ultimo profeta che ha detto regola. Mose è primo profeta. Islam è religione migliore perché Mohammed è ultimo profeta. E il terrorismo? dico io. Giuro che non lo sto provocando, sono solo curioso, e parlare dell’altra vita funziona incredibilmente bene per passare il tempo a pulire i pavimenti. Terrorismo è di Occidente, è fatto per soldi e politica. Loro dicono che Islam è terroristi, ma Islam non è terroristi, è religione, e religione va bene, tutte religioni va bene. Terrorismo è di Occidente, è bugia di Occidente per soldi e politica. Mmh… Però in molti hanno paura dell’Islam, no? Cioè che se rubi ti tagliano le mani, per esempio. Fa paura, capisci? Eh! (e ride), ma è giusto! Se ruba fa peccato, tagli mano e non ruba più! Be’, certo, ma che si fa? Se uno sbaglia gli si tagliano le mani? Un po’ drastico, ti pare? Ma tu non sbaglia se ruba! Se ruba non è sbaglio, tu fa peccato, non ruba per sbaglio! Se ruba perché è povero e ha fame si guarda, la gente guarda e aiuta, non taglia mano se ha fame. Ma se ruba fa peccato, non è sbaglio. Mmh… E senti, com’è che dall’Italia sei venuto fin qui, alla fine?

Mi piace Malik, è uno che chiacchiera volentieri. Tanti immigrati non te lo dicono facilmente come e perché sono arrivati dove sono arrivati. Si vergognano, hanno paura, sono sospettosi, non vogliono ricordare, non saprei. Io invece sono curioso per natura. Il che, veramente, per quanto sembri una bella cosa, crea problemi a un sacco di persone. Oggi la gente ha troppa paura di dimostrare interesse, o ha troppo rispetto, non lo so, ma è come se fossero tutti rinchiusi dentro le loro teste. Involontariamente credo che me l’abbia insegnato mia madre, a essere curioso dico. Lei veramente è indiscreta, più che altro, che è diverso. Ma in fondo credo di essere come lei. Un po’ mi piace, devo ammetterlo, ma ci ho messo del tempo a capirlo. A capire che mi piace essere come sono, intendo, cioè a essere in gran parte com’è lei. Non è semplice. Prima si passa attraverso la fase in cui li critichi, cioè la fase in cui critichi negli altri quello che in te non riconosci. Poi, se stiamo parlano di genitori, ti accorgi di essere come loro, cioè ti accorgi che in loro criticavi qualcosa che avevi dentro anche tu e che però ti disturbava, perché era un po’ come sentirsi dentro un corpo estraneo, come voltarsi all’improvviso e accorgersi di avere incisa sopra la testa la loro effige: una bella fregatura. Tu, vale a dire, possiedi le stesse caratteristiche che in loro criticavi. Gli somigli, in altre parole: terribilmente. Ma ad ogni modo. La fase successiva sarebbe quella di accettarle quelle caratteristiche, e se sei sveglio anche di apprezzarle. Poi sarebbe il caso di sublimarle, cioè di portarle a un livello superiore, di cancellare un po’ la loro effige da sopra la tua zucca e di darti da fare per metterci le tue di iniziali, là sopra. Mettere le proprie iniziali sopra la propria testa… potrebbe anche sembrare inutile da un certo punto di vista, o un’impresa banale, e invece col cazzo. Non facciamo altro per tutta la vita che cercare di mettere quelle iniziali sopra la nostra testa. Ma comunque… Qui c’è amico, dice Malik. Ha detto che qui c’è lavoro e io sono venuto. Qui è meglio di Italia. In Francia tutti stranieri è francesi. Italia è diverso. C’è integrazione, qui (e ride). In Italia entro a lavoro, dico bonjour e nessuno dice bonjour. Qui entro a lavoro e salutano, chiedono, è integrazione. E a questo punto io perdo qualche altro grammo di cuore, perché Malik non lo sa ma siamo entrati qui insieme, lo stesso giorno, due settimane fa. E lui lavora meglio di me, più velocemente di me, e sorride pure, a differenza mia, e soprattutto parla francese, ma a me da settembre hanno offerto un contratto, a lui no. Perché? Integrazione, suppongo.