Rumore bianco di Don DeLillo compare sulla scena editoriale nel 1985. In breve, tratta la storia di una normale famiglia statunitense alle prese con la propria vita (il lavoro accademico di lui, quello socialmente utile di lei, i numerosi figli e i loro caratteri in via di sviluppo), fino all’arrivo di una nube tossica sopra la loro tranquilla cittadina. L’evacuazione immediata e l’angoscia crescente nei confronti di un pericolo misterioso, non tangibile, obbligano tutti gli abitanti – e in particolare i nostri protagonisti – a doversi confrontare con la paura della morte.
DeLillo ci porta all’interno di una dimensione priva di certezze, in cui l’urgenza di comprendere l’entità del pericolo si scontra con lo sfaccettato mondo degli strumenti che l’uomo ha inventato per relazionarsi con l’ignoto. Rumore bianco è la presa di coscienza del naufragio a cui l’uomo è costretto nel mare di “significati abbandonati” e inconoscibili del suo mondo. Nulla tiene più: la realtà diventa un esercizio di fede da qualsiasi punto di vista si scelga di guardarla. L’ottimismo della conoscenza certa non le pertiene minimamente. In questo panorama, Don DeLillo torna con una certa insistenza sul ruolo dell’immagine (e della fotografia in particolare), quasi delegandole il compito di dimostrare quanto friabile sia il terreno delle nostre sicurezze più salde.
Non basta che il reale sia fotografabile per conoscerlo, talvolta neanche per vederlo
Già nel terzo capitolo, ci porta a visitare “la stalla più fotografata d’America” (così annunciata dal cartello autostradale). Giunti lì, però, vediamo solo fiumi di gente intenta a fotografare quanto descritto nell’indicazione, impedendoci di vedere la stalla. Il visibile diventa di colpo incerto e irraggiungibile: non possiamo conoscerlo tramite l’esperienza sensoriale diretta. Siamo a tutti gli effetti nell’epoca della mediazione, del sapere indiretto, e quindi, in ogni caso, fallace. «Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla», dice Murray a Jack una volta preso atto dell’impossibilità di poter vedere quanto stanno immagazzinando decine di obiettivi fotografici. «Vediamo solamente quello che vedono gli altri. […] Come sarà stata questa stalla prima di venire fotografata? […] Domande a cui non sappiamo rispondere perché abbiamo letto i cartelli stradali, visto la gente che faceva le sue istantanee. Non possiamo uscire dall’aura. Ne facciamo parte».
Non basta che il reale sia fotografabile per conoscerlo, talvolta neanche per vederlo. Prima lezione. Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti